Famiglie adottive: assomigliarsi nella differenza

Pubblicato da Babele, verso uno scambio comunicativo, periodico telematico trimestrale a carattere scientifico dellʼIstituto di Ortofonologia srl, anno VIII, n. 24, aprile 2015. p. 13

Il lavoro con le famiglie adottive, per uno psicoterapeuta che lo affronta con il bagaglio di esperienza di un esperto della dimensione interiore, si rivela una miniera di riflessioni creative.

Per cogliere questa preziosa opportunità di crescita personale, occorre però accostarvisi con lo spirito di chi esplora un territorio relazionale, ma anche individuale, poco conosciuto, liberando la mente da supposti schemi acquisiti per attivare un ascolto il più possibile sgombro da interpretazioni a priori.

Schemi che mal si adatterebbero a questo contesto del tutto particolare. Per ciò che concerne le famiglie da poco formate, in particolare alle quali si rivolge il lavoro di postadozione o di accompagnamento alla relazione di cui tracceremo qui le linee fondamentali, il particolare clima emozionale in cui sono immerse difficilmente si presta a un approccio psicologico classico, rendendolo arduo e forse eccessivamente rigido, se non addirittura impoverente.

Più adatto è uno sguardo che colga emozioni e pensieri di adulti e bambini nel lungo momento del loro dispiegarsi, in quella fase in cui adulti e bambini vivono una forte spinta verso il reciproco incontro. Ciò che contraddistingue il periodo che va dall’incontro tra genitori e figli adottivi e la stabilizzazione delle relazioni, è un desiderio molto intenso dal lato degli adulti, quello di diventare finalmente genitori, e un bisogno altrettanto forte da parte del bambino, quello di crescere in una dimensione affettiva protetta e stabile.

Ciò che ci sembra utile in questa fase è quindi il saper cogliere l’opportunità di un momento, quello dell’inizio di una famiglia, in cui ciascuno è spinto a dare il meglio di sé e le forze psichiche in gioco sono energie di apertura, per porre in primo piano e valorizzare le risorse di ognuno.

Nel percorso postadottivo guidato da uno sguardo simile, capace di mettere tra parentesi i pre-giudizi, anche psicoanalitici per sintonizzarsi con il movimento delle relazioni affettive spontanee guidando chi le vive verso una maggiore consapevolezza, il fine è quello di accompagnare la famiglia a porre le basi per una relazione più autentica possibile, in cui caratteristiche e limiti di ognuno siano al centro del gioco relazionale e dell’investimento emotivo.

Per questo gli incontri di post adozione, che si svolgono in presenza dell’intero nucleo familiare (ne sono previsti in media quattro nel corso del primo anno dall’ingresso del bimbo in famiglia), sono solo in apparenza scarsamente strutturati, avendo in realtà una trama metodologica ben precisa. In uno spazio in cui gli adulti pongono domande alla psicoterapeuta e i bambini giocano, liberi comunque di interagire secondo il loro desiderio e bisogno con gli adulti, emergono pensieri e immagini, dubbi e paure di ognuno, che possono entrare in dialogo con quelli degli altri e cercare una prima armonizzazione.

Mentre si parla di argomenti appartenenti al registro del concreto e del quotidiano, e i genitori cercano un sostegno per le loro comprensibili incertezze e ansie, i bimbi – anche piccoli –, mentre giocano o disegnano, ascoltano e percepiscono pensiero e affetto dei genitori nei loro confronti, ricevendone un aiuto per iniziare ad affidarsi. E il registro comunicativo concreto si apre percettibilmente al simbolico. I genitori nel contempo imparano a confrontarsi con il bambino reale e ad attivare una funzione genitoriale che prenda le mosse dalla propria personalità e trovi le sue radici nella dimensione istintiva.

Nell’atmosfera viva dell’inizio, in cui ci si conosce poco, ma si desidera raccontarsi e conoscere meglio chi si ha di fronte, viaggiano intense contrastanti emozioni che il sapere terapeutico illumina, avvicinandole alla coscienza di ognuno e rendendole così maggiormente stabili, ma soprattutto stabilmente integrabili. Gli sguardi smarriti dei bimbi appena arrivati, per esempio, contengono ed esprimono di volta in volta curiosità e paura, grande attrazione verso il nuovo mondo e diffidenza.

Ancora, le domande intrise d’ansia degli adulti raccontano la fatica delle madri che guardano con tenerezza i bimbi e vorrebbero sentirli e «farli» subito loro figli, o quella dei padri che non sanno bene come accostarsi a quel piccolo sconosciuto. Che tipo di relazione si forma tra un genitore e un figlio adottivo? Vicinanza ed estraneità ne sono componenti fin dall’inizio percepibili, come due parti in apparenza contrastanti, ma a uno sguardo più profondo strettamente connesse e indissolubili. Il figlio adottivo ha una sua personalità già formata, e anche nel caso in cui entri in famiglia a pochi mesi ha già una sua storia. Quest’ultima è destinata a restare per il genitore adottivo, in parte più o meno grande, una tranche di vita del figlio a lui sconosciuta e ben percepita come difficilmente conoscibile.

Il bambino, da parte sua, che ha conosciuto altri accudimenti e ha vissuto in Paesi con una cultura dell’infanzia molto distante dalla nostra, si trova a fronteggiare le cure assidue di due adulti che non conosce, regole educative e scolastiche a lui sconosciute: in una parola entra in un contesto e in un clima culturali completamente differenti da quelli ai quali è abituato.

E a volte reagisce con comprensibili manifestazioni di disagio, per lo più con strategie difensive non sempre immediatamente comprensibili. Il legame che gradualmente si crea attraverso la quotidiana costruzione di una storia comune, assume la forma di una vera e propria adozione reciproca. Nel corso dei colloqui di postadozione si è testimoni di molti dei temi in cui questo processo si sostanzia, presenti fin dai primi giorni: il terremoto emotivo cui vanno incontro i bambini appena giunti da un altro continente, e quello altrettanto intenso vissuto dei genitori; il formarsi graduale della relazione tra fratelli; il trasformarsi della relazione di coppia e, sotteso a tutto questo, il nascere e il consolidarsi del legame genitori-figli con le sue caratteristiche specifiche. Nel procedere degli incontri si assiste al progressivo radicamento del bimbo nella famiglia e nel mondo esterno, mentre si fa più evidente con il trascorrere dei mesi che l’adottarsi assume la forma di una reciproca trasformazione di adulti e bambini, un processo che dall’interno della famiglia viene portato all’esterno.

Si prendono in esame approfondito i vari modi di vivere l’ambientamento da parte dei bambini, la relazione dei genitori con il passato dei figli e le domande circa l’atteggiamento da tenere, il tema dei ricordi e della storia del bambino come «tessitura di passato e presente», infine quello della doppia identità culturale del bambino. Questi temi costituiscono il canovaccio su cui si costruisce l’identità della famiglia adottiva e a partire dal quale prendono quotidianamente forma le relazioni. L’accompagnamento del nucleo nel percorso di postadozione diventa in quest’ottica un vero e proprio laboratorio di prevenzione, in cui si testimonia una nascita collettiva, in cui è sufficiente individuare dove il terreno psichico è più fertile, gettare pochi semi e aspettare che crescano.

Affrontando per esempio le difficoltà e le emozioni del bambino legate alla separazione dal nucleo biologico, man mano che si presentano nei racconti del figlio, in forma di domande sulle origini e negli eventuali ricordi, i genitori si danno un’opportunità nuova rispetto al dare per scontato l’abbandono come cicatrice indelebile: quella di imparare a conoscere e a sostenere le risorse riparative del loro bambino e il loro progressivo esprimersi. Contemporaneamente vengono stimolati a impegnarsi nel processo di costruzione del legame di appartenenza reciproca. Il radicamento del bambino nella famiglia costituisce in quest’ottica un nuovo radicamento anche per i genitori, condotti dalle domande e dagli stimoli portati dal figlio a un vero e proprio cammino trasformativo.

Proprio le difficoltà e la complessità relazionale legate all’identità «altra» del figlio, al suo passato e all’assenza di un supporto biologico che renda (apparentemente) più semplice la creazione di un legame di appartenenza, costituiscono infatti per molti genitori, a partire dal desiderio del figlio e da un grande investimento affettivo, un’autentica e spesso potente spinta evolutiva. La complessità di livelli e di sfide dell’esperienza relazionale adottiva genera non di rado una tensione verso il superamento del proprio limite. Si percepiscono, infatti, negli incontri con le famiglie un’atmosfera di dinamismo cui si accompagna un clima di ricerca, una frequente disposizione alla riflessione attiva e al mettersi in relazione con l’esperienza che si sta vivendo: questo continuo interrogarsi e mantenere l’apertura verso l’altro, percepibili in persone molto diverse tra loro, non possono non colpire e suscitare ulteriori riflessioni.

Ciò che avviene nella famiglia adottiva, un processo della cui evoluzione siamo testimoni a ogni incontro, è il connettersi di un forte desiderio e tensione verso la genitorialità e di un’altrettanto intensa sollecitazione mentale, la quale ha origine nella natura paradossale e inconclusa della relazione, di cui ogni neogenitore adottivo fa subito esperienza: io voglio incontrare profondamente l’altro, ma tocco con mano ogni giorno che devo venire a patti e imparare a convivere con ciò che non è integrabile, cioè le origini e le caratteristiche «altre» del figlio. Sembra possibile ipotizzare che proprio da quest’unione emerga la spinta a dare il meglio di sé, a creare senso e valori nel quotidiano vivere in famiglia, come modalità per vivere i paradossi senza subirli, ma anche come tensione verso il loro superamento.

Il nocciolo duro del rapporto genitore-figlio adottivo, come sperimenta ogni individuo che si trova a viverlo, è di fatto qualcosa che sfugge sempre, e quindi costringe a rimettere in gioco nel vivere nuove energie di appartenenza e di ricerca della relazione. In questo alveo tematico si collocano le dinamiche di formazione della genitorialità: le ansie di inadeguatezza dei momenti immediatamente precedenti e seguenti l’incontro, più o meno consapevoli e consapevolmente affrontate, lasciano gradualmente il posto a un progressivo rinfrancarsi.

Nell’attuarsi di questo processo si rendono visibili mutamenti sul piano identitario e individuativo per i genitori e una spinta preziosa per il bambino ad affidarsi finalmente a un adulto capace di interrogarsi su di lui e sui suoi bisogni, in grado di indovinare i suoi desideri, ma anche di contenerlo nella sua mente. Altri temi che emergono nel procedere dei colloqui di postadozione sono quelli della crescita da diverso-uguale: come si coniugano e come vengono declinate dai bambini e dai loro genitori il desiderio di sentirsi «come gli altri» e il senso di irriducibile differenza tanto somatica quanto esistenziale che l’identità adottiva porta con sé? Per le famiglie, sempre più numerose, che accolgono bambini in età scolare, la riflessione comune nel corso degli incontri si focalizza nel corso dei mesi sulle difficoltà dei bambini più grandi nel trovare il passo comune con i genitori e degli adulti nel costruire una relazione educativa che tenga conto della personalità già formata del figlio.

Essenziale parimenti il confronto con i genitori su tempi e modi dell’ingresso nella vita scolastica, nel suo favorire un’ulteriore consapevolezza del bambino del suo essere differente e su come d’altra parte l’ingresso a scuola possa, contrariamente a quel che si pensa, preparare il terreno per un approfondimento del senso di appartenenza familiare. A questo riguardo, l’introduzione del concetto di loose coupling ci aiuta ad approfondire ulteriormente la natura del legame nella famiglia adottiva.

Si tratta di un concetto introdotto dallo psicologo statunitense Karl E. Weick nella psicologia delle organizzazioni, secondo il quale il mantenimento di identità, anche molto diverse nelle organizzazioni, possa facilitare e rendere maggiormente funzionali le relazioni tra esse. Quando fatti e parti dell’organizzazione sono collegati in questo modo, in cui l’attaccamento reciproco può essere circoscritto ad aspetti limitati, ed è apparentemente esile, si riscontra che proprio questi legami allentati sono la colla che tiene insieme l’organizzazione. L’analogia con le relazioni familiari adottive può essere così espressa: è l’accoppiamento di individui dalle storie e identità differenti che può creare attaccamento, che a sua volta può strutturare il legame. All’interno del legame, solo tenendo conto della parte loose possiamo costruire la relazione. È la dimensione «lenta» (loose), infatti, che permette di uscire dalla tenaglia della preoccupazione o dell’amore che soffoca.

Riconoscere l’aspetto loose nella relazione col figlio, nel concreto, permette di riconoscerne l’alterità, verificando di persona quanto l’identità dell’altro non sia sovrapponibile alla propria. Se invece prevale la preoccupazione del «non capisco», in quel momento è eccessivamente presente una dimensione idealizzata, cioè come il legame deve essere, e l’emozione dominante è il tormento del perché non lo sia.

Al contrario, mettendo in gioco l’intenzione si dà avvio a un percorso di sviluppo della dimensione relazionale che permette di andare verso l’altro. Il legame «allentato» o «rilassato» favorisce, inoltre, per quanto riguarda i bimbi grandi, il recupero nel ricordo dei legami precedentemente intessuti. Il ricordo viene recuperato e inserito nel presente con maggiore facilità se il bambino non percepisce da parte dei genitori richieste affettive troppo pressanti e spesso vissute da lui come premature. In questa prospettiva, l’avere tempestivamente a propria disposizione uno spazio e un tempo ampio di vita tra pari, tramite l’inserimento scolastico, con figure adulte dal ruolo educativo, ma meno vincolante sul piano dell’affetto, può permettere al bambino di rispettare i propri tempi nell’acquisizione del legame affettivo familiare.

Gli dà un’opportunità più immediatamente fruibile di coltivare, nel proprio mondo interno come nell’esperienza con i compagni, il proprio modo di essere, iniziando a integrarlo nel presente della nuova vita. Tornando al legame familiare nella famiglia adottiva, possiamo avanzare l’ipotesi che in questa complessità in cui l’altro non ci somiglia, ma «vorremmo che» (il bisogno del legame è un bisogno di vicinanza e di somiglianza), il legame loose può articolarsi come una coesistenza, paradossale ma non troppo, di somiglianza e differenza. In questa prospettiva, anche le resistenze al legame che il bambino mette in atto diventano un aiuto per crearlo.

Tornano in mente, pensando al legame lento, i modi sovente stupefacenti in cui i bambini grandi sanno guidare il gioco del reciproco avvicinamento, salvaguardando la propria differente identità. Riprendendo il filo conduttore delle riflessioni precedenti, l’ossimoro diverso-uguale sembra costituire parte integrante del nucleo identitario della famiglia adottiva nel suo insieme, e non si può non interrogarsi sui riverberi che quest’identità può portare nell’ambiente circostante. Inevitabile, infatti, ipotizzare che il nucleo familiare adottivo sia in grado di costituirsi e di vivere consapevolmente la propria esistenza intorno a un’identità di confine.

A ben guardare, si tratta di un’identità mutevole e in qualche modo sintona all’epoca contemporanea: al suo interno la differenza di ciascuno diventerebbe apertura al possibile, dove anche il dolore e le esperienze negative, invece di essere pensati e dunque arrivare a configurarsi come una coperta stretta che limita e stringe troppo lo sviluppo di una persona, entrano a far parte a pieno diritto dell’identità di ognuno e del suo continuo evolversi-trasformarsi. Per concludere provvisoriamente queste brevi note, osserviamo come la curiosità inesausta e l’imparare a convivere con l’incompiutezza costituiscano il fondamentale contributo che la relazione familiare adottiva può dare alla riflessione sulle forme dell’umana convivenza.

Bibliografia

TERRILE P., CONTI P., Figli che trasformano. La nascita della relazione nella famiglia adottiva, Milano, Franco Angeli, 2014

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