Verità e interpretazione nel lavoro clinico

Pubblicato in La Pratica Analitica, Testi di psicologia analitica a cura del CIPA, Istituto di Milano, 2009

“Gelsomino nel paese dei bugiardi”

Una favola di Rodari  parla di come un pirata, Giacomone, giunto in una terra riesca a imporsi come Re e a sovvertire le leggi linguistiche pervertendo la sostanza delle cose: i pirati si chiamano galantuomini, al mattino si deve dire buonanotte, la legge rende obbligatoria la bugia, impone, insomma, la bugia. Il suo potere termina quando un gatto si rifiuta di abbaiare, riprendendo a miagolare, ovvero ristabilendo l’ordine delle cose vere.

La morale parrebbe essere quella di un’altra favola, assai più nota e di più antica data, quella dei vestiti nuovi dell’imperatore.

La verità alla fine, dunque, trionfa nel senso che la verità libera, mentre la bugia imprigiona. Ma è sempre così?

Soprattutto in un’epoca in cui i confini tra realtà e finzione sono divenuti estremamente labili, tornare a riflettere su verità, realtà, finzione, bugia, falsificazione ha un senso di estrema pregnanza, giocando su termini di fondamentale importanza per la costituzione dell’individuo, per la sua formazione e il suo sviluppo, per la costruzione della sua identità.

Per questo, però, non vi sono soltanto ragioni di ordine generale legate ad una “passione” che gli psicoanalisti sono restii a abbandonare - riportare i dati dell’esperienza clinica a una sfera più ampia, cercando di interrogarsi sul collettivo. Vi è anche una motivazione strettamente legata a situazioni di consultazione, che, suscitando in un primo momento sorpresa, spinge alla ricerca ipotesi esplicative.

Ci riferiamo a situazioni cliniche che includono una dinamica familiare del tutto specifica, in cui la falsificazione emerge in primo piano quale elemento caratterizzante non solo la dinamica interattiva tra i componenti della rete familiare, talora anche il nucleo stesso, ma anche e soprattutto la qualità e la natura dello sviluppo dei bambini coinvolti. Falsificazione e distorsione della realtà, verità meramente soggettiva che diviene verità condivisa, ponendosi come la sola possibile.

Matteo, un bambino di 7 anni, rannicchiato dietro una delle poltrone dello studio, quella su cui è seduto il nonno materno, si rifiuta di uscire dalla sua posizione adducendo come motivazione la sua grande paura che il padre, seduto nella poltrona opposta, possa fargli del male … proprio come alla sua mamma tanto tempo fa …. e dire che sono presenti altri due adulti, da lui ben conosciuti, uno di questi, la consulente che sa incaricata dal Giudice per trovare una soluzione al conflitto che vede contrapposti i suoi genitori, gli ha già parlato a lungo in occasioni di incontri precedenti, rassicurandolo sulla presenza di adulti che avrebbero impedito al padre di comportarsi in un qualsiasi modo avrebbe potuto nuocergli, o anche solo infastidirlo.

Inutili le rassicurazioni del nonno, persona pacata e unico dei familiari capaci di cogliere un aspetto potenzialmente dannoso nell’assenza di rapporti del nipotino con il padre. A nulla valgono gli incoraggiamenti e le garanzie. Il bambino non solo non sente ragione, ma mostra un’angoscia crescente che si condensa in breve in una vera e propria crisi di tale rapida intensità da portare alla decisone immediata di concludere l’incontro.

Matteo aveva affermato nel corso delle sedute diagnostiche di essere più che sicuro che il padre fosse un violento, persona di cui non potersi fidare, anzi di cui diffidare, motivando questa convinzione – ed rifiuto a incontrare il padre ormai già da un anno - con il ricordo netto e preciso del padre che picchia la madre, causandole una rovinosa caduta a terra.

Colloca tale ricordo ai suoi 3 anni e non vi è tentativo, sempre garbato e delicato, indiretto e mediato, che valga ad avviare anche solo un piccolo dubbio nel bambino, che quella “verità” lui proprio non può averla raggiunta da solo in seguito ad una sua esperienza diretta di quanto è convinto di ben ricordare. La costruzione del ricordo appare assolutamente solida e intaccabile.

Stante l’approfondita conoscenza della personalità della madre, nella narrazione diretta della sua storia e della storia del suo rapporto con il partner padre di Matteo, ma anche nell’osservazione diretta delle dinamiche relazionali, pur conflittuali, con l’ex-partner, è da escludere la presenza di un condizionamento diretto sul bambino almeno negli ultimi 4 anni.

Un criterio di giudizio per stabilire se una memoria infantile è falsa o vera è lo sviluppo del cervello: fino ai 4-5 anni, infatti, non è possibile formare ricordi stabili; pertanto, è legittimo diffidare delle memorie anteriori a questo fase di sviluppo.

Gli psicologi Joseph e Anne-Marie Sandler hanno messo in luce la sostanziale inaccessibilità delle memorie infantili, in quanto il ricordo che risale all'infanzia risulta poco affidabile. Secondo molti esperti, avere un ricordo articolato sotto l’età dei tre anni è un falso ricordo quasi per definizione, in quanto il lobo prefrontale inferiore sinistro - necessario per la memoria a lungo termine - non è ancora sviluppato nei bambini. L’elaborata codificazione richiesta per classificare e ricordare un evento non può dunque avvenire nel cervello di un infante, ed è plausibile ritenere che presunti ricordi risalenti ai primi anni di vita siano poco affidabili e attendibili.

Sorprendente è allora la genesi di una costruzione, quella descritta nel bambino, ormai non solo presente nel suo immaginario, ma anche sostenuta e “agita” di propria iniziativa in una dinamica relazionale che ne risulta, pertanto, pesantemente condizionata. Ma anche a livello profondo appaiono i segni di tale processo: le immagini genitoriali interiorizzate hanno un carattere di unilateralità del tutto anomala in un bambino della sua età.

Un altro flash similmente tratto dalla consultazione per l’autorità giudiziaria, sempre di un bambino, questa volta molto più piccolo, ma anch’esso implicato in una vicenda di analogo rifiuto a incontrarsi con il padre.

Manuel ha 5 anni, una fortissima personalità, uno sviluppo decisamente precoce nell’acquisizione di competenze su ogni livello e in ogni ambito. In un linguaggio sorprendentemente corretto, persino forbito, afferma” il papà è cattivo perché ha dato tante botte alla mamma e anche i calci” e lui per questo non lo vuole più vedere … perché ne ha paura!

Anche in tale caso la storia così come raccolta da entrambi i genitori pone delle insuperabili difficoltà a ritenere possibile che il bambino abbia assistito a scene quali quelle riferite, ma neppure a litigi. La diagnosi delle personalità dei genitori, ma soprattutto la diagnosi relazionale compiuta sul rapporto coniugale, portano a ritenere altamente improbabile, poiché incompatibile con la qualità della relazione di coppia, la realtà di episodi di violenza agita, neppure a livello verbale tra I coniugi. Cronologia e psicologia escludono ciò che la mente infantile dà per assolutamente “vero”.

Laura e Valentina, bambine alle soglie della preadolescenza, sostengono con toni e modi estremamente sofferti di aver paura del padre, col quale vivono dopo l’ordinanza del giudice, sebbene la madre le reclami a gran voce. Sostengono di essere vessate dal padre, del quale temono la violenza, a loro dire fatta di sberle, strattoni, urlate. Nei loro racconti riecheggia una analoga accusa rivolta dalla madre al marito riferita agli anni della prima infanzia delle bambine. Ma non si tratta di condizionamento aperto e diretto quello che in moltissime situazioni di separazione conflittuale è possibile riscontrare quando si osserva un’assonanza assai ampia dei motivi e una formulazione assolutamente identica tra il genitore e il bambino, definibile come “ripetizione a pappagallo”.

Dal profilo del padre, inoltre, emerge una netta differenziazione nella gestione e articolazione relazionali tra ambito di coppia e ambito genitoriale, che rendono, unitamente ad altri elementi diagnostici, altamente improbabile che abbia mai superato le soglie di un certo rigore educativo con le figlie, che invece sembrano esere investite di una proiezione d’anima sufficientemente equilibrata.

Letizia giunge addirittura a scappare, eludendo la sorveglianza paterna, nello strenuo tentativo di tornare dalla madre alla quale dice di aver paura del padre, di non riuscire a stare con lui, poiché teme che la picchi come sempre ha fatto da quando, dopo la separazione, ha iniziato a vederlo da sola.

E i modi di agire del padre trovano ampia risonanza nell’ascolto della madre, portata a dare credito alla sua bambina, sulla quale pare con ogni probabilità, stante l’accurato approfondimento effettuato, non aver operato alcun condizionamento diretto. Ma a colpire è tale ascolto appiattito, “omogeneizzato” e del tutto acritico che rinnova alla narratrice una fiducia e un credito assoluti, atteggiamento che si allarga a tutto il contesto familiare materno.

Situazioni come quelle descritte, che sono in preoccupante aumento, ci hanno spinto a riprendere e rivedere alcuni punti dello sviluppo della personalità del bambino, che investono anche l’adulto, e il nostro modo di vivere e sperimentare eventi e passaggi dell’esistenza.

L’intento è ragionare sul come e il perché un bambino proceda in tal modo e sulle conseguenze per lui del costruirsi una verità - o meglio una rappresentazione di quella che lui sente come verità - che si sa non poter corrispondere al vero, cioè a quanto si ipotizza sia accaduto con ragionevole approssimazione al vero storico. Non va dimenticato che la rappresentazione mentale non coincide mai con l’oggetto e col fatto concreti, così come il ricordo non coincide mai con l’evento accaduto, ma ne è una ricostruzione interna tramite rappresentazioni mentali, frutto di rielaborazione delle percezioni esperite. Rielaborazione che solitamente nel bambino in crescita si avvale della collaborazione dei genitori, sia individualmente che congiuntamente, in assonanza anche col contesto familiare e sociale allargato.

L’importanza di una tale ricerca consiste certo nel capire la genesi di tali “verità”, ma poi anzitutto nel rintracciarne le ripercussioni sull’evoluzione del bambino e sulla qualità delle sue relazioni.

Da ultimo porre alcuni spunti di riflessione, forse veri e propri interrogativi sulle difficoltà di rielaborazione in ambito terapeutico di tai distorsioni, mettendo in gioco l’efficacia della interpretazioni.

La formazione dei ricordi nel bambino - intendendosi per ricordo una rappresentazione mentale che nasce da una concorrenza di stimoli percettivi in cui l’elemento visivo non è necessariamente sempre presente - è un processo dinamico complesso, che impegna una serie di funzioni mentali sofisticate anche in età precoce.

L’elemento verbale appare nella rappresentazione a partire dall’età di acquisizione delle vere e proprie competenze linguistiche, riuscendo però a condensare, dandovi finalmente una forma, anche frammenti e grappoli di esperienze precedenti, soprattutto se si rinnovano all’interno di una quotidianità che ne vede il ripresentarsi. La percezione visiva, uditiva, olfattiva e tattile sono presenti in misure diverse, spesso prevalendo l’una sulle altre, concorrendo sovente a rinforzarsi reciprocamente. Il tutto avviene all’interno di un’elaborazione, o meglio di una rielaborazione fantasmatica, di quello che nella memoria viene archiviato come ricordo “Mi ricordo che …”.

La parte del genitore è di non minore importanza delle competenze via via acquisite dal bambino, agendo come fattore di decodifica della realtà, da filtro delle esperienze, da aiuto e da supporto alla decifrazione di quanto esperito e da orientamento nella interiorizzazione del senso di quanto vissuto, da conferma, infine, della capacità di autorappresentarsi il mondo in un modo e in una misura complessivamente condivisi e condivisibili.

La realtà appare così costituirsi per il bambino come esperienza affettiva ancor prima che percettiva, sicuramente lo diviene e lo resta nella sedimentazione delle sue esperienze esistenziali.

Nella formazione dei ricordi del bambino le figure di accudimento, in particolare quella materna, giocano un ruolo di importanza indiscutibile. Se ne ha esperienza diretta quando da genitori proviamo a sondare con i figli ormai adolescenti quanto e cosa si ricordino della loro prima infanzia.

Ha accompagnato l’infanzia delle figlie di una di noi il ricordo di un incontro ravvicinato con un coccodrillo in una pozza vicino alla riva del lago di Comabbio, uno dei molti piccoli laghi di cui è attorniato quello di Varese.

Interrogate in proposito fino alle soglie dell’adolescenza, ribadivano entrambe l’assoluta veridicità dell’episodio, che già da piccole (4 e 5 anni), avevano raccontato con grande eccitazione. Avvicinatesi al lago col padre (fantasioso narratore di storie) e attratte da una pozza al limitare della riva, avevano potuto vedere il muso di un coccodrillo spuntare dall’acqua e addirittura lambire il piede di una di loro, tanto da lasciare un leggero graffio. Graffio prontamente mostrato alla madre in una eccitata narrazione degli eventi, così come confermati dal padre, preso ormai dalla propria narrazione e non intenzionato a raffreddare gli entusiasmi delle figlie. Nella rievocazione successiva, in più occasioni presentatesi negli anni seguenti, non vi era modo di modificare il ricordo preciso che dell’avvenimento conservavano entrambe, in piena assonanza di elementi.

Al tentativo di verificare la possibilità (la capacità non era certo in questione), di operare un vaglio critico del ricordo, per reperirne una diversa spiegazione, la reazione era pronta e vivace protesta, difesa ferma e decisa della loro certa adesione al ricordo, fino alla minaccia di mettere a rischio la loro fiducia nel genitore, o in chicchessia rimanesse nel dubbio su quanto da loro sostenuto. Fine della storia! A distanza di anni, al termine dell’adolescenza, si assiste alla sorpresa incredulità, da parte della ragazza “ferita” dal coccodrillo, proprio sulla possibilità di avere aderito al ricordo .…. “Ma come ho fatto a sentire addirittura i denti sul mio piede? Come ho fatto a ricordarmi anche i graffi?. Stupore corretto, fortunatamente, dalla spontanea considerazione della capacità di fantasticare dei bambini, così conciliando la vecchia convinzione e l’analisi critica resa possible da strutture di pensiero più complesse e sviluppate più tardi.

L’influenza operata dal genitore sulla formazione dei ricordi, prima ancora che sulla formazione dell’immagine propria e dell’altro genitore, al pari di ogni altra persona del suo mondo, è di straordinaria ampiezza e sorprendente portata per la costruzione della personalità del bambino.

Per tornare alle situazioni cliniche in cui è possibile osservare le distorsioni cui prima si accennava, va detto che esiste in alcuni casi un condizionamento indiretto da parte del genitore che prosegue anche in assenza di una reiterazione di esso, comportando l’acuta percezione da parte del bambino del sentimento prevalente nutrito dal genitore nei confronti dell’altro; sentimento, che pur non esplicitato, propone l’altro come negativo, spesso anche come veramente ‘pericoloso’.

Si impongono a questo punto alcune riflessioni su una serie di punti critici: quale il grado di condizionamento? quale il grado di adesione alla visione proposta/imposta? quale il margine per la possibile modificazione di tale visione nel corso dello sviluppo? quale la possibilità perché tale modificazione proceda all’interno di un lavoro di aiuto psicologico? quale la possibilità che questa ‘verità’ sia funzionale alla sopravvivenza del bambino e in che misura? Come e perché il bambino ‘è stato messo nelle condizioni’ di crearsi tali ‘verità’ che sono in realtà bugie?

Ci tornano alla mente le parole ascoltate in un seminario da Giuseppe Pellizzari con un titolo accattivante: “L’invenzione della verità tra infanzia e adolescenza”.

La verità può essere colta solo attraverso una “finzione”, dicono i nostri appunti, La verità si declina al nostro interno attraverso un atto di pensiero, e pertanto di rappresentazione della realtà, è una qualità delle rappresentazioni, efficace raffigurazione della realtà senza mai sovrapporsi ad essa. Nel suo essere così “costruita” attivamente, l’immaginazione partecipa a tale costruzione che si sedimenta nel ricordo “E’ quindi un’azione, un mettere in relazione, uno stabilire dei legami, un rappresentare qualcosa al cospetto di qualcuno, non un oggetto”.Una rappresentazione non sarà mai assolutamente vera, tale cioè da sovrapporsi totalmente alla realtà cui si riferisce in maniera da assorbirla, occultandola in sé.

La realtà, quella percepita e interiorizzata, appare allora frutto di un complicato processo di elaborazione fantasmatica su cui il soggetto fa conto per potersi narrare di sé e del suo mondo, costruendo la propria stabilità interiore nella formazione di una identità “piena” di contenuti, ossia di tracce mnestiche sapientemente elaborate e pronte per ogni successiva rielaborazione e integrazione. Insomma: la finzione è alla base della formazione dell’identità personale!

Che la bugia assolva a importanti compiti collettivi, nella costruzione dell’ordine sociale, è noto grazie a numerose analisi filosofiche e sociologiche.

Come osserva Bettetini, “una forma di bugia è alla base di ogni diritto, è fondamento di ogni arte”. Wilde sosteneva, in forma sicuramente provocatoria, come il primo a mentire fosse stato il fondatore della società civile.

Ma in tali campi del sapere è lecito ormai domandarsi: in un mondo virtuale che senso ha parlare di bugie? Che senso ha operare distinzioni precise tra realtà e finzione? Le fiction e i reality sono più veri della realtà, che è divenuta pura finzione?

Ma nel sapere psicologico la distinzione mantiene una specifica, preziosissima rilevanza.

Interrogarsi su quali dinamismi siano in opera nella formazione di una personalità è sempre di grande utilità per meglio cogliere e analizzare ciò che si mostra all’osservazione clinica e nei normali processi di sviluppo. La conoscenza del e sul bambino favorisce una migliore comprensione anche dell’adulto, quindi il porsi domande di rilievo clinico, perciò anche teorico e metodologico, ha risvolti importanti anche in ambiti, come quello giudiziario, dove la psicologia clinica fornisce un sapere che può meglio orientare la decisione.

La costituzione dell'identità nel bambino presuppone la possibilità di fruire di una costante coerenza, anche a fronte di tutti gli ‘insulti’ cui il susseguirsi delle esperienze esistenziali dà luogo, richiedendo il ripristino di quel filo unitario su cui la percezione della propria continuità si fonda. Il filo della propria continuità si dipana, però, all’interno della relazione d’oggetto, o meglio delle relazioni, che a partire da quella di accudimento primario via via si instaurano, e che decidono della percezione del mondo come di un ambito di vita possibile.

E allora vale la pena, per analizzare la funzione della bugia nel corso dello sviluppo, di recuperare l’esperienza dell'infanzia, quella dell’epoca di costruzione dell'identità, quando le bugie sono fondanti l’identità.

Diciamo recuperare, poiché il mondo adulto, e non solo i genitori, ha un atteggiamento di riprovazione e pertanto di valutazione negativa della bugia.

Questo anche se i genitori sono i primi a raccontare bugie, a farvi ricorso come supporto e elemento portante della loro azione educativa. Si pensi alla quantità di metafore e metonimie che i genitori utilizzano, perfettamente consone al loro grado adulto di raffinatezza cognitiva, ma non di certo alla portata del loro piccolo.

Di seguito sono citate quelle “banali”, ovvero innocenti, ben diverse dai veri e propri inconsapevoli occultamenti della realtà, che riguardano avvenimenti dolorosi (lutti) o intrisi di un forte sentimento di colpa (allontanarsi dal bambino per attività non strettamente necessarie): “Ti sei sporcato come un porcellino”, “sei curioso come una scimmietta”, “sei ciccione come un piccolo Buddha, “sei una buona forchetta”, “il baubau sta dormendo, me l’ha detto l’uccellino”.

Ciò non è solo nel momento in cui sentono di seguire il bambino nella sua dimensione fantastica, tornando ad adottare punti di vista e strumenti ormai persi, ma non sepolti, nella loro memoria.

Anche nel farsi carico della responsabilità della crescita i genitori ‘mentono’ per precise scelte educative, sapendo che la realtà avrebbe aspetti non comprensibili - dunque non fruibili - per una mente dotata di potenzialità capaci di esplicarsi solo in modo graduale, e che si sta sviluppando e arricchendo.

La bugia dunque, a differenza della menzogna, ha una funzione essenziale per la costruzione dell'identità, e va collocata nel contesto evolutivo di crescita dell’individuo.

La bugia appartiene al mondo della libera costruzione della realtà nella possibilità di intervenire a crearla e a modificarla attraverso la fantasia e l’immaginazine, che sulle capacità rappresentative del bambino fanno leva. Per il piccolo si tratta di un vero e proprio “potere” da esercitare, in una sua personale volontà di poter intervenire attivamente sul mondo che lo circonda.

E la sua crescita si snoda attraverso due meccanismi e lungo le linee di due dinamismi opposti ma complementari, quelli di adattamento e assimilazione, in cui vi è comunque sempre un intenso intervento attivo sulla realtà.

Jean Piaget, importante psicologo infantile, considerato il fondatore dello studio sperimentale dello sviluppo delle strutture e dei processi cognitivi, sosteneva di avere come primo ricordo cronologico quello di essere stato sequestrato all’età di due anni. Di questo episodio ricordava diversi particolari: si rivedeva in carrozzina mentre la sua baby-sitter si difendeva contro il delinquente; ricordava i graffi sul viso della donna e il poliziotto che con un bastone bianco aveva inseguito il rapitore. La storia era confermata dalla baby-sitter, dalla famiglia e da altri che ne erano a conoscenza. Piaget era convinto di ricordare l’evento. Nella realtà, il drammatico episodio non era mai avvenuto. Molti anni dopo il presunto tentativo di rapimento, la baby-sitter di Piaget confessò di aver inventato l’intera storia, per timore delle conseguenze del suo ritardo nel rincasare. In seguito Piaget scrisse: «Devo dunque aver sentito, da bambino, il resoconto di questa storia e devo averlo proiettato nel passato nella forma di una memoria visiva, che è la memoria di una memoria, ma è falsa».

Per il bambino inventare le prime bugie vuol dire entrare nel mondo del “come se”, in una dimensione essenziale per lo sviluppo di una identità differenziata e autonoma, che è quella dello spazio transizionale.

E non è forse una continua, ripetuta bugia il giocare e il disegnare? Si pensi al gioco simbolico come “il far finta di essere”, incarnando personaggi dei cartoni animati o delle favole; i giochi di ruolo messi in opera da soli (scolaro - maestra, mamma – bambino, dottore – bambino) o in gruppo (i cowboy e gli indiani, i buoni e i cattivi); l’immedesimazione, il raccontarsi una storia fantastica facendo agire come marionette pupazzi e giochi, anche oggetti comuni; e ancora ascoltare, leggere, ripetere la favola letta e la fiaba ascoltata e la narrazione mitologica in generale. anche se si tende a fare una bella confusione e a sovrapporle

La bugia risponde così a un’esigenza conoscitiva che si coniuga a una rassicurazione affettiva. La creatività narrativa della fiaba (conoscere e ricordare) struttura nel bambino un'attitudine mentale che lo rende capace di trovare significati e ragioni ai suoi vissuti, creare il filo tra i diversi episodi della sua esistenza.

Nella sua funzione mitopoietica, con il mito, la favola, la storia, la bugia riempie il nulla privo di rappresentazione. Esempio straordinario è il mito delle origini presente in ogni cultura, nelle più diverse latitudini e nei più diversi contesti esistenziali, con una funzione basilare per l’uomo, quella della comprensione del mondo in cui vive contribuendo a costruirlo, internamente oltre che esternamente.

Apparentemente differenziata, ma in realtà intrinsecamente correlata, è la funzione dello spazio transizionale sul piano relazionale, quello del senso e dell’acettazione dell’Altro.

Il fantastico è uno spazio relazionale e come tale assume una dimensione tridimensionale, o forse potremmo anche dire quadridimensionale, andando ben oltre le coordinate della fisica tradizionale. La bugia, appartenendo al suo regno, è il frutto dell'immaginazione, dei sogni e delle illusioni; fa vivere all’altezza dei propri sogni.

La bugia ha anche una funzione conoscitiva: soccorre nel raccontare cose di cui non si conosce la risposta e in cui si crede senza averne le prove.

Le bugie cambiano con l’età del bambino, con I diversi snodi evolutivi.

Possiamo distinguere l’età prescolare da quella scolare. (Discorso a parte, che qui non affrontiamo, è quello sulla bugia nell’adolescenza). In età prescolare il confine è labile tra vero e falso, tra realtà e fantasia. Nella primo differenziarsi fra sé e l’altro è l’inizio della capacità rappresentativa, ancora ‘omnicomprensiva’ e operante con elementi di realtà indifferentemente interna ed esterna, combinati in molteplici modi e replicati con fantasiosa creatività. Al pari dello scarabocchio e dei primi accenni di ‘omino-testone’, che per il bambino”sono” quell’oggetto e quella persona ben specifiche che ha in mente, al di là del segno grafico tracciato, il bambino si rappresenta, nel raffigurarla anche all’altro, la realtà così come la percepisce grazie alle sue competenze cognitive. Si pensi all’efficacissima esemplificazione della discrepanza percettiva e rappresentativa tra bambino e adulto nel passo de “Il Piccolo Principe”, in cui il primo rinuncia a comunicare all’adulto il suo mondo interno, vista l’incapacità di quest’ultimo di comprendere il contenuto del disegno, scambiando un fantasiosissimo elefante ingoiato da un boa per un banalissimo cappello.

Quadridimensionalità … e allora uno scarabocchio è (e non rappresenta), un delfino nel mare, un cane che morde, una casa. E guai se il bambino sospetta una nostra incredulità (suggerita dalla difficoltà a rintracciare la forma rappresentata nella mente dell’adulto dell’oggetto evocato).

Nell’età scolare compaiono le bugie “vere e proprie”, accostando alla funzione ormai nota di dar corpo al fantastico e di esprimere l a sua esigenza creativa sul e nel mondo, la capacità di veicolare significati più “evoluti”, rispondendo alla maggiore raffinatezza del suo sviluppo identitario, nel giovarsi dell’avvenuta costituzione di una identità personale separata e differenziata, desiderosa di immettere una particolare nota di precisa intenzionalità nelle proprie iniziative..

 È  iniziata l’acuta e precisa percezione della costituzione di un primo, ma forte senso di sé, che pur mantenendo altrettanto precisa percezione di un grado di dipendenza dall’oggetto di accudimento ancora piuttosto elevato, ne percepisce, ma anche fantastica, un futuro abbandono e superamento, anche nel permettersi di “mentirgli”!

Migliore, nel senso di più ampia, ma anche qualitativamente diversa, è la percezione dei moti pulsionali, accanto a quella delle necessità basilari, dei bisogni primari, che assumono ora una veste più complessa, insieme alla consapevolezza dei modi per soddisfarne l’urgenza. Ma urgono anche altri bisogni, ora passibili di una ricerca autonoma di soddisfacimento: quelli affettivi veicolati e supportati dal desiderio, e non solo dal bisogno della relazione.

La bugia si presta ottimamente a dare espressione a queste necessità di crescita.

La bugia per discolpa esprime la difficoltà a accettare la parte negativa di sé, i propri intensi sentimenti di rabbia e al contempo conservare i legami di stima e di considerazione che sono legati all’affetto. Può dare espressione anche alla difficoltà di affrontare la delusione dei genitori e le loro aspettative non soddisfatte.

La bugia consolatoria permette al bambino di rappresentarsi una condizione migliore di quella temuta stante la propria incapacità di far fronte alle evenienze critiche della vita, conservando un’immagine valida più forte e più capace di sè.

L’origine nel bambino sono sentimenti di dolore, di insicurezza, di perdita; la conseguenza è l’inganno, ma anzitutto di se medesimo.

Vi sono però anche compiti cognitivi. La bugia ‘ideologica’, con cui il bambino fa valere la propria capacità di contrapporsi e di avere iniziative proprie, di incidere sul mondo e nel mondo ricorrendo alla fantasia, segnala l’inizio della separatezza dalla madre, l’affermazione di un’identità che ora è percepita con sufficiente consapevolezza per dare il ‘brivido’ della libertà di autodeterminazione, delimitare uno spazio psichico privato. Al contempo permette di scaricare una quota di aggressività legata alla percezione di un grado ancora elevato di dipendenza dall’oggetto.

La bugia è inoltre un modo per confrontare la sua percezione con la realtà che deve conoscere, ricorrendo alla sfida e alla provocazione per studiare la reazione dell'altro, assumendo in ciò un significato prettamente relazionale.

Vi è dunque una doppia funzione: all’interno, l’acquisizione di strategie e abilità sociali e lo sviluppo di un’identità coerente; d’altro lato mantenere e conservare la relazione con l’Altro, salvaguardarne l’affetto, la stima e l’approvazione quando non sono ancora acquisite le capacità di negoziare e di mediare il conflitto. Qui è difficile distinguere tra il movimento interno e il movimento relazionale, tra sfera interna e sfera relazionale, che sembrano dar luogo a un movimento oscillatorio che spesso li comprende entrambi.

La bugia assolve, allora, a importanti compiti evolutivi, che conserva anche nell’esistenza adulta, ripresentandosi come necessaria  alla funzione genitoriale.

Che differenza si pone allora tra queste bugie e quelle di cui Matteo, Manuel, Valentina, Laura  e Letizia sono portatori?

Se nella bugia ‘evolutiva’ - potremmo così definirla - il rinvio alla realtà si gioca su un limite ondivago, permeabile, fluttuante di un andare e venire, di un entrare e uscire, che, ben lungi dal creare incertezza, consente di vivere contemporaneamente su poli diversi, talora opposti al reale, facendo salva la ricchezza semantica di ciascuno di essi, nelle ‘falsificazioni’ - e qui ricadono i casi citati – vien meno lo spazio transizionale: la convinzione ha status concretistico, di ‘reale’ piatto, monodimensionale, disperatamente polarizzato, privo di tensione dinamica e creatività. I bambini coinvolti si trovano esclusi dall’immaginario, dal mitico, dal fantastico, va perduta la funzione propria della bugia di entrare in rapporto con la realtà e accrescere l’autonomia e l’indipendenza del bambino. La falsificazione incide profondamente sulla capacità di raccontarsi, di ricorrere al pensiero magico, di dar forma all'egocentrismo infantile, di vivere il sogno, di immaginarsi anche prima di essere.

Ma è necessaria un’ulteriore differenziazione: tra bugia ‘sintomatica’ e quella ‘indotta’ o forzata, come per il momento conviene chiamarla.

Se vi è una bugia ‘fisiologica’, ossia evolutiva, strumento essenziale di crescita, esiste altresì una bugia espressione di disagio, di un malessere, dunque equivalente ad un sintomo. Sintomo, in specie, di distorsioni relazionali nel mondo del bambino, in particolare con i genitori, di cui è percepita l’inaffidabilità e l’inattendibilità. Il bambino è indotto a inventare bugie dalla percezione, nei genitori, di paure che essi non riescono fronteggiare, e alla fine proiettano su di lui. Oppure il genitore può esser percepito come fragile e debole, da proteggere. di fronte ad altre figure familiari o da minacce che si percepiscono come inaffrontabili. La bugia difende infine dal rischio della delusione delle aspettative dei genitori, quando esse superino la quota “fisiologica” prima accennata. E’ il caso di investimenti prioritariamente o esclusivamente di qualità narcisistica, ad opera di genitori che operano una massiccia proiezione di parti del sé a scapito dell’espressione e sviluppo autonomo del sé del bambino. La bugia è allora una difesa patologica, il solo modo di comunicare all’interno di un codice ormai distorto.

E qui ci collochiamo già al limite della falsificazione della realtà.

Ricordo il caso di una bimba di 5 anni allevata dalla sola madre, lontana dal padre, di cui non aveva peraltro un’immagine, né un vissuto negativi … Non ne aveva bisogno, come appariva clamorosamente da una narrazione in un’osservazione congiunta madre – bambina. Si trattava del racconto di come fosse nata la bimba, espresso nella forma di una favola, che aveva come protagonisti la mamma, la bimba e … Gesù, in un’evidente duplice simbolizzazione della figura paterna, eliminata nel momento in cui veniva “santificata” e divinizzata.

Noi eravamo due sorelle in cielo e Gesù era nostro padre. Giocavamo a pallavolo, ma un giorno la palla è andata sulla testa di Gesù. Poi la palla è caduta e anche noi, ma Serena voleva ritornare in cielo. Poi da piccola ho visto una strega che era la mia nonna e un diavolo che era il mio papà. Poi la mamma è rimasta incinta e, poi, esultando, è nata Serena”.

Torniamo alle situazioni, citate sopra, di bambini osservati nelle consultazioni per l’autorità giudiziaria.

Se vi è un ambito in cui la verità è in primo piano, e assume un’importanza essenziale, è appunto quello giudiziario. Non approfondiamo qui altri temi connessi, quali verità fattuale e verità processuale, affidabilità del ricordo e attendibilità della testimonianza, argomenti senz’altro di grande interesse ma lontani dal focus di questo lavoro. E’ invece importante, prima di procedere nell’analisi della dimensione patologica della bugia, fare un rapido cenno alla distorsione operata dal bambino in un contesto di indagine e a fronte della richiesta di rievocare fatti ed eventi.

L’attenzione alle dinamiche discorsive della testimonianza si è di recente intensificata in relazione alla segnalazione sempre più frequente di abusi, o comunque di situazioni in cui la testimonianza di un bambino è essenziale alla determinazione del fatto e all’attribuzione della responsabilità. Ne è seguito un fiorire di studi, in particolare statunitensi, sull’attendibilità del bambino e sulla sua suggestionabilità.

E in particolare a questo concetto ci interessa accennare, in quanto sembra avere attinenze con quanto si vedrà circa la bugia e la falsificazione della realtà ad opera di meccanismi psicologici in un contesto relazionale familiare.

Gli studi in materia mettono in rilievo la tendenza della psiche, adulta o infantile che sia, a operare distorsioni in modo ‘fisiologico’, per dare coerenza al ricordo, specie se esso sia lacunoso o frammentario, colmandone i vuoti. Va ricordato che la memorizzazione nel bambino segue strade diverse da quella dell’adulto, soffermandosi il primo su aspetti particolari dell’evento o dell’oggetto mentre il secondo privilegia una visione d’insieme. Questo si declina, ovviamente, in base alle differenti tipologie personologiche, elemento ben rilevabile nell’adulto, più sfumato nel soggetto in età evolutiva, il cui sviluppo segue percorsi più omogenei.

Un altro meccanismo riguarda la suggestionabilità, fenomeno presente negli adulti, ma molto di più nei bambini, collegandosi (e ciò è rilevante per il nostro discorso) con la tendenza del bambino a soddisfare le aspettative dell’adulto, tanto più se percepito come autorevole, fonte comunque di valutazione e giudizio. Più precisamente il bambino tende a incorporare nel proprio ricordo ogni informazione aggiuntiva gli giunga da parte dell’adulto che sul ricordo stesso lo interroghi o gli rivolga semplicemente domande. In genere l’adulto agli occhi di un bambino è persona competente, credibile e attendibile, e nel dargli una opzione di fiducia ampia, talora totale, asseconda un desiderio di compiacere che è naturale, considerate la suaa posizione di dipendenza, sempre percepita dal bambino, anche in tenerissima età.

La percezione della dipendenza dall’adulto, fonte di sopravvivenza affettiva, psichica e esistenziale, gioca un ruolo di primaria importanza nelle situazioni di distorsione relazionale, in tutte le loro forme. Ancora gli studi sulla suggestionabilità offrono uno spunto di riflessione, rilevando il forte potere di suggestione delle tecniche di rinforzo e influenza dell’adulto verso il bambino, quali premi, elogi, lodi, ma anche punizioni, disapprovazioni e riprovazioni.

Vorremmo escludere da questa analisi la bugia legata all’abuso vero e proprio, che porterebbe ad ampliare troppo la trattazione, facendo spazio alle differenze tra diverse componenti, modalità, eziologie e manifestazioni dell’abuso. Questo anche se, come si vedrà in seguito, pure le situazioni in esame realizzano abusi, solo psicologici, ma sempre tali.

Per tornare alla bugia “da alienazione parentale” e all’opera di falsificazione della realtà ad essa sottostante, è opportuno accennare a situazioni limitrofe, ovvero a quelle che possono preludere ad essa, muovendo da un uguale contesto relazionale, ma mantenendosi in una dimensione ancora fisiologicamente connessa a una fase di transizione della vita familiare, o comunque reversibile

A parte situazioni transitorie, del tutto fisiologiche nella vita di un bambino, quali la nascita di un fratello, un trasferimento di abitazione, un cambio di insegnante, un lutto in famiglia, vi sono ancora  condizioni particolari, che pur possibili nel normale ciclo familiare, comportano un forte rischio di  distorsione delle dinamiche relazionali e dello sviluppo individuale del bambino. Ci riferiamo alle situazioni di crisi separativa dei genitori e di rottura del nucleo originario, che espongono i bambini a dosi elevate di stress, per il prodursi di stati di incertezza e insicurezza esistenziale, di crisi di affidabilità nei genitori, che sembrano venir meno al ruolo di garanti della stabilità esistenziale, della certezza e della fiducia del bambino e della permanenza degli affetti, a fronte di cambiamenti rispetto a cui anche gli adulti sembrano ora fragili e deboli. La bugia qui offre al bambino una speranza ripristinare la sua stabilità e sicurezza, mantenendo punti di aggancio concreti in un’esistenza radicalmente.

Nelle separazioni il più delle volte vi è un genitore ‘forte’ e uno ‘debole’, che coincidono in genere con il partner che ha voluto e ricercato, talora anche forzato e imposto la separazione e quello che l’ha subita. La bugia è allora il modo di preservare l’immagine positiva del genitore ‘debole’, per non farsi deludere da lui, per proteggerlo dalla sua fragilità. Ma anche verso il genitore ‘forte’ può darsi la bugia, per conservarne l’approvazione e l’accettazione, (per non subire un identico allontanamento) o anche per approvarne le scelte e confermarne la stima (per non incorrere in un’analoga svalutazione). O infine per condividerne ‘atteggiamento nei confronti del genitore allontanato (con cui il bambino non vive in in prevalenza e non è pertanto fonte della garante di continuità della quotidianità). La bugia esprime, allora, l’immagine negativa che il genitore convivente ha dell’altro con la doppia funzione, pur paradossale, di preservare entrambi gli affetti; ma senza la percezione che così facendo non controlla (come vorrebbe) ma accresce la conflittualità parentale

Filippo, un bambino di cinque anni vispo e spiritoso, profondamente legato a entrambi i genitori, racconta spesso al papà che la mamma lo porta in “discoteca” la sera col nuovo compagno, generando le ire e l’ansia del padre, ancora profondamente invischiato nel conflitto coniugale. Il padre accoglie per vero quanto detto dal bambino con una difficoltà a operarne, nel necessario salto al simbolico, una lettura interpretativa che ne sappia afferrare il reale messaggio sottostante e, pertanto, anche la reale motivazione del figlio.

La consuetudine ad essere esposto in misura eccessiva alle attenzioni dei genitori, lo porta a ricercarle attivamente e intensamente, anche in ragione di una normale quota di narcisismo e del suo essere figlio unico. Infatti, il clima relazionale conflittuale sollecita la messa in scena di reazioni ‘capricciose’ del bambino ovvero verbalizzazioni fantasiose che generano animosità e contrasto tra i genitori. Soprattutto il papà, ‘parte lesa’ nella separazione e quindi percepito come ‘più debole’, da tutelare e compiacere, non è in grado di soppesare e cogliere le motivazioni reali delle affermazioni del figlio e cade nell’ovvia provocazione evidente che esse veicolano.

Nel bambino si avvia sempre un ‘conflitto di lealtà’, almeno nelle prime fasi del processo separativo. Ma se questo si protrae, dando luogo a un inasprimento della conflittualità, allora il conflitto di lealtà, che oscilla dolorosamente tra l’uno e l’altro genitore, può decidersi a favore di uno dei due. Più spesso il bambino sceglierà il genitore presso cui è collocato dal quale dipende praticamente per la vita quotidiana. Sentire di dover essere ‘fedele’ ad uno dei genitori spinge il bambino, anche senza la sollecitazione dell’altro, a dire bugie, in modo da ‘salvare’ quel genitore dagli attacchi dell’altro. Tale ‘scelta di campo’ lo mette spesso nelle condizioni di camuffare o distorcere anche i suoi sentimenti, assumendo atteggiamenti e ruoli consoni al genitore, ma disfunzionali alla sua sana e autonoma crescita. 

A ciò contribuiscono ambedue i genitori, sia quello che tende a trasferirgli la propria realtà, sia l’altro quando non riesce a decodificare tale dinamica e a attribuire correttamente le responsabilità: finendo così per addossare ogni colpa all’altro genitore e dare un credito assoluto al bambino, il quale si trova così confermato nella sua personale distorsione della realtà.

Analogamente a Filippo, Alessandro, intelligentissimo bambino di quattro anni, nel percepire del tutto inconsapevolmente l’intensa ansietà della madre quando lo consegna al padre (della cui inaffidabilità e immaturità è convinta) al rientro racconta alla mamma di essere stato portato in moto, o in gita  a Gardaland, o di aver compiuto lunghi e impegnativi viaggi in treno o in macchina, accrescendo così la diffidenza materna e intensificando il conflitto tra i genitori.

Ci avviciniamo alla falsificazione, poiché vi è il rischio che nel ricordo si cristallizzino frammenti di realtà nella sua forma falsificata, accanto ad un’interiorizzazione della rappresentazione mediata òdall’intervento del genitore condizionante.

Questa la strada per l’alienazione della fiducia nei genitori: in quello che induce la bugia, ma anche in quello cui è diretta.

Da qui all’alienazione di un genitore il passo è breve.

È possibile che il passaggio si compia quando vi è un’ampia e profonda intolleranza dell’ambivalenza e quando siano all’opera importanti meccanismi scissionali. In queste situazioni si crea una drammatica assonanza con le dinamiche tra verità/bugia tipiche dell’abuso vero e proprio. Ovvero l’essere indotti ad accettare una bugia finendo per credere che sia l’unica verità.

Come riporta Dusty Miller nel suo “Donne che si fanno male”, il silenzio, inteso qui come accettazione di un inganno, nei casi di abuso familiare può essere legato a un meccanismo chiamato «negazione difensiva», che al suo estremo può giungere proprio alla negazione della stessa violenza, poiché si è “imparato a cancellare ciò che non può sopportare di ammettere”.

Nelle situazioni di alienazione parentale, però, ben difficilmente si è verificato l’abuso (spesso) denunciato dalle madri, finendo per essere queste ultime agenti di un abuso psicologico sul figlio. Di questa dinamica fa parte l’esercizio del potere sulla mente altrui, quella del bambino e quella degli altri, del sociale e dell’istituzione (giudicante), chiamata a confermare la ‘verità’ e a perseguire il genitore presunto abusante.

Qui madri che sono le prime vittime del meccanismo, le prime a credere a quanto trasmettono al bambino come verità intorno al padre.

Talora non si tratta del marito-padre, bensì dei congiunti, più spesso i nonni, in uno “spostamento” inconsapevole, ma non per questo meno pericoloso, delle fantasie dirette originariamente al partner come figura che torna a rappresentare nell’immaginario e nel vissuto la figura genitoriale “abusante” o carenziante.

Vi sono madri che si sentono perseguitate dalle attenzioni del marito-padre, che interpretano filtrandole con le costellazioni interne basate sui vissuti sedimentati delle loro esperienze infantili. Non vi è minura , né pace per attenzioni da un lato reclamate come risarcimento dovuto, da un altro temute come prevaricanti, ma in ogni caso deformate da un non riconosciuto e tuttora conflittualizzato desiderio di riconoscimento. Dall’altro lato ci sono spesso padri fragili, incastrati nella e dalla loro svalutazione e incertezza del proprio ruolo, caratterizzati da un sé poco coeso, povero di declinazione nei vari assi dell’espressione della sua personalità.

D’altro canto si tratta in fin dei conti di madri con uno scarso grado di individuazione, talora visibilmente affette da un vero e proprio arresto del processo di individuazione che comprende, ma non vi si esaurisce, una mancata o scarsa separazione di una identità individuale.

Vi è, allora, una manipolazione intenzionale della realtà e una pratica della bugia, con l’induzione nel bambino della formazione di un falso Sé, esito prognosticamente assai frequente, quando non già presente come quadro patologico ormai assestato nella valutazione diagnostica. Ne deriva una costante distorsione dei dati di realtà nell’induzione di una parallela, perdurante falsificazione dei relativi vissuti. Ancor più grave se questi meccanismi, avviati dalla madre, si estendono anche al contesto più esteso, nonni, zii, parentela allargata, tutti dunque alla ‘versione’ che vien costruita.

Per il bambino si pone il problema della costanza, ossia dal mantenimento dell’affetto del solo oggetto d’amore disponibile, condizione, pertanto, della sua sopravvivenza psichica.

Così Matteo (citato all’inizio), sollecitato a disegnare accetta con entusiasmo e si appresta a fare un disegno che dice di aver fatto anche altre volte a casa. Il disegno è diviso in due parti nette e ben separate. Dalla parte destra, in un azzurro tenue, è rappresentata la mamma con un fiore in mano e l’aureola sulla testa mentre nella parte sinistra, in un rosso sgargiante, il papà con le corna, la coda e il forcone in mano. Verbalizza che sono la mamma angelo e il papà diavolo, raccontando spontaneamente episodi in cui il padre si è comportato in modo violento con lui e con la mamma. Il disegno è davvero inquietante e ben evidenzia il vissuto del bambino in riferimento alle immagini materna e paterna.

Alla richiesta di disegnare una famiglia, Matteo rappresenta se stesso e la mamma su una strada in salita. Le due figure sono poco differenziate e le proporzioni non sono rispettate. Il bambino, infatti, è più grande e più alto della mamma come ad esprimere un senso di protezione nei confronti di questa, vissuta come fragile. Mancano anche gli elementi del viso di entrambi (occhi, naso, bocca), evidenziando una difficoltà di comunicazione tra i due.

Al test di Rorschach si evidenziano spunti di ansia persecutoria che interferiscono nella relazione con l’altro, alimentando l’ambivalenza tra bisogno di contatto e di dipendenza (da cui l’importanza della relazione)e il tentativo di mantenere una distanza. I contenuti esprimono il vissuto delle figure genitoriali, ad esempio Matteo in tav. IV del test  vede “un orco”, in tav. VII prima “una collana” poi “un morto”. Al Blacky Pictures Test in tavola VII emerge un’aggressività di fronte all’oggetto vissuto come incapace di rapportarsi adeguatamente (“faceva finta di sgridare il giocattolo”) e quindi non sentito come parte di sé integrabile (“se Blacky fosse il cane giocattolo vorrebbe metterlo in castigo per non andare fuori a mangiare nel ristorante di cani”).

Matteo, inoltre, fa scegliere al protagonista di assomigliare alla mamma.

O ancora Manuel (pure già citato) che si presenta in studio tenendosi ben stretto alla gamba della mamma. Una volta entrato nella stanza, un po’ buia, dice alla mamma che “lui le farà luce”. Per tutto il tempo si comporta come se dovesse essere il bambino “perfetto”, come pensa che la madre desidera che lui sia. La madre spiega che il figlio non si lamenta mai; difficilmente chiede aiuto quanto sta male, anche perché è solita dirgli: “se stai tanto male ti devo portare all’ospedale, vuoi andare all’ospedale?”. A tal proposito racconta che “può essere sul punto di morte, ma non vuole mai chiamare il dottore”. Soltanto una volta si è vista costretta a portarlo al pronto soccorso.

Il bambino disegna la mamma e la rappresenta senza occhi; solo con la bocca, senza pancia e “se proprio vuoi solo con un occhio”. Allora la madre interviene e dice: “anche con un occhio vedo lo stesso quello che combini!” Rappresenta se stesso senza arti, solo con la testa, vuota, gli occhi e “una puzza che esce” e si rifiuta di aggiungere al disegno qualsiasi altra persona.

La qualità della relazione imposta dalla madre è quella simbiotica, ma su un versante narcisistico: il bambino è un’estensione del sé, investito quale prova e convalida della propria identità personale, quale conferma di una dimensione materna, che in realtà è vuota di contenuti autentici. Al bambino non viene riconosciuta alcuna reale autonomia psichica e anche la sfera dell’ autonomia concreta - quella che può trovare espressione nei movimenti, nelle manifestazioni, nelle iniziative di gioco e nell’occuparsi di sé - è fortemente limitata da troppo solleciti interventi materni’, che ne consentono l’incipit, ma ne impediscono lo sviluppo.

I disegni di Laura sono estremamente poveri, i personaggi non in relazione. Nel disegno della famiglia reale i personaggi sono tutti senza mani, come a indicare le difficoltà relazionali. Disegna se stessa con una bocca grande che voleva rappresentare un sorriso, ma buca il foglio e il sorriso è più un ghigno rabbioso. Madre e padre sono sullo sfondo, minuscoli, prima cancellati e poi ridisegnati, senza mani né piedi, come se avessero perso il contatto con il suolo, con la realtà. I vissuti nei confronti del padre sono ambivalenti: sembra poter essere una figura di identificazione, ma non è sempre disponibile, preso dall’ amore/conflitto con la madre. Il padre, tuttavia, non appare in nessun momento come la figura paurosa descritta dalla madre. E Valentina (la sorella) nella tav. X del Blacky Pictures Test afferma “Blacky pensa a sua mamma come se fosse nera. (?) è più bella la mamma del sogno”, mentre alla tav. XI “Blacky sogna il papà tutto nero. (?) è più bello il papà vero”.

Anche all’osservazione diretta della relazione tra figlie e padre non emerge alcun elemento che possa far pensare a qualche forma di timore, tanto meno paura, nutrita da queste nei suoi confronti. Si è potuta anzi osservare la scioltezza, accompagnata da confidenza e intimità nella relazione di Laura e Valentina col padre, del quale apprezzano la capacità di divertire, muovendosi su un piano di gioco e scherzo, accanto alla severità nell’imposizione di alcune (ma solo alcune!) regole di comportamento. Inevitabile, a fronte di tali considerazioni, pensare al ruolo dell’intensa proiettività della madre. Cioè considerare l’influenza che hanno inevitabilmente alcuni messaggi materni, cioè della figura  dominante sul piano emotivo-affettivo per le figlie, nonostante i riscontri positivi provenienti nella  relazione diretta col padre.

Questi bambini preferiscono affrontare la frustrazione di un affetto assente, trasformando il padre in oggetto persecutorio conformemente alle indicazioni della madre, amplificate dal contesto familiare, un oggetto pesantemente fantasmatizzato come negativo che va a potenziare l’aspetto arcaico dell’imago paterna. Ecco formatosi il padre – orco – mostro!

Si crea uno squilibrio tra le componenti arcaiche della figura parentale. Nel conscio del bambino si cristallizza una immagine totalmente negativa, che, come si ritrova poi agli approfondimenti testali, stimola la formazione a livello inconscio di una immagine pesantemente idealizzata. Il padre è l’eroe, grande, potente, invincibile, ardentemente desiderato, quanto più lontano e irraggiungibile. Ma tale dimensione non può avere accesso nella sua vita, pena la perdita immediata della madre quale punto di riferimento e oggetto di amore.

Un amore – quello della madre - che sazia senza nutrire veramente.

Più grave è se questo avviene nelle fasi precoci dello sviluppo, quando il bambino non ha sviluppato pienamente le strutture verbali per raccontare quanto gli accade intorno e dar parole alle sue esperienze.

La distorsione cognitiva più profonda con la frammentazione dei ricordi rende sempre più difficile proseguire un normale accrescersi delle conoscenze in relazione a esperienze diversificate e non solo del tutto uniformi. I riconoscimenti unicamente possibili diventano allora via via quelli di una realtà che va adattandosi e uniformandosi alla ricostruzione e alla ideazione altrui, la madre, lasciando al bambino ben poco margine per  le sue percezioni e le sue sensazioni, ovvero le sue esperienze così come iscritte nella sua mente dai suoi sensi e rielaborate dalle sue stretture cognitive.

Grave è una identificazione assoluta, decisamente eccessiva, poiché forzata, con il genitore portatore della unica possibilità di sopravvivenza psichica, poiché unica fonte d’amore e rassicurazione fruibile, essendo negata quella dell’altro. Di conseguenza si osserva la negazione di una parte di sé, quella che il bambino sa derivare inevitabilmente dall’altro genitore, essendo lui originato dai due genitori, ossia da due parti divenute inconciliabili, in un drammatico sovvertimento del dato biologico, che a quello psicologico deve assoggettarsi.

 A parte l’età i problemi sono più gravi per il bambino dello stesso sesso del genitore escluso, in specie quando si tratti di bambini maschi costretti ad una identificazione forzata con la madre e la sua figura. Le cose, però, non vanno bene neanche per le femmine, ridotte all’identificazione con un femminile debole, soverchiato, vessato, (falsamente) abusato, impossibilitate a sviluppare un’immagine di sé come oggetti di desiderio maschile, poiché non desiderate se non da un ‘mostro’. La distorsione che così si produce intossica la vita del bambino, minando il suo senso di interezza e di coesione.

Impossibile l’essere in sintonia con se stessi se si è privati della possibilità di contatto con la totalità dei propri bisogni, sapendo riconoscerli e imparando ad accoglierli e a reclamarne il soddisfacimento o a ricercare come ottenerlo.

Il bambino rischia così di apprendere, interiorizzandoli, schemi relazionali sia verso di sé che nell’interazione con gli altri – tra cui le figure affettivamente più significative - che ripercorrono in modo drammaticamente adesivo quelli del genitore condizionante. E ripetere la storia, rinnovando continuamente lo schema appreso e la qualità relazionale fatta propria senza averne la minima consapevolezza e senza rendersi conto della sua origine. Vi è inoltre anche un aspetto “tragico”, quello di un avvvallo e una conferma, in fn dei conti un rafforzamento, della “storia” così come ormai si è costruita da parte di un nucleo fa,iliare allargato, che va a formare una vera e propria “mentalità” familiare e provocare inevitabilmente una trasmissione transgenerazionale non esattamente semplicemente ripetitiva, ma altresì amplificata e dilatata. Si tratta allora del ripetersi di incapacità a percepire i bisogni dell'altro poiché non percepiti nei propri confronti nel corso dell'infanzia. Dell’impossibilità a sciogliere il legame interiorizzato anche perché mai pienamente giocato nella relazione, né concretizzando nella scansione e nella declinazione delle interazioni relazionali che si riducono a soli rapporti segmentati e frammentari.

I casi citati sono solo alcuni fra decine di situazioni incontrata in questi ultimi anni in un crescendo veramente preoccupante. Ma che fare una volta effettuata la diagnosi, valutata la condizione psicologica del bambino e individuati i rischi?

Inevitabile una prescrizione  di intervento psicoterapeutico per il bambino in primis, e poi anche di un lavoro psicologico per i genitori come inevitabile indicazione clinica. Ma nel contesto di un procedimento giudiziario, quando in questione sono la potestà genitoriale, la collocazione del bambino, la frequentazione con ciascuno dei genitori, diventa più complicato limitarsi alla stretta indicazione clinica, senza considerare il problema nella sua più ampia complessità.

Come può collocarsi una psicoterapia in un contesto relazionale di tal natura, così pesantemente investito di valenze simboliche? Che efficacia può avere la prescrizione di un intervento psicoterapeutico "coatto", imposto autoritativamente? Interrogativi questi, che investono importanti questioni della clinica, della teoria della tecnica della pratica psicoterapeutica.

Vi sono poi altri problemi connessi a particolari difficoltà nella terapia: affrontare la falsificazione radicata significa sfidare il terrore per la possibile, temutissima perdita del genitore "mentitore". Vanno tenuti in conto il senso di colpa per l’eliminazione del padre, la vergogna conseguente, la percezione della natura estremamente vincolante del legame al genitore dominante, il sentimento di inefficacia e inadeguatezza, oltre che di vuoto, nell’oscillazione continua tra i poli dell’onnipotenza e dell’impotenza, l’identificazione parziale e parcellizzata con i genitori, che non può mai essere integrata e coerente, divenendo impossibili a livello cosciente sia quella con il genitore escludente prevaricante e dominante sia quella con il genitore escluso.

L’obiettivo dovrebbe essere il riequilibrio delle immagini interiorizzate, avviando cambiamenti radicali nei processi identificativi con uno e l’altro genitore. Con l’obbligo di pensare e formulare con estrema attenzione le interpretazioni, essendo in tali casi ancor più che in altri quadri clinici di vitale importanza per il bambino mantenere un assetto stabile delle sue relazioni  che intuisce impossibilitate a modificarsi anche in tempi relativamente contenuti.

 E i tempi, nella maggior parte delle situazioni che pervengono alla consultaione peritale dipendono necessariamente non tanto a fattori psicodiagnosticamente individuabili, quanto a vincoli procedurali, inevitabilmente ampiamente condizionanti.

Nell’attività clinica non strettamente terapeutica, come appunto quella di valutazione per l’autorità giudiziaria, pur non ponendosi un quesito terapeutico, v’è pur sempre un imperativo di etica psicologica, ovvero di rispetto della “verità” relazionale, che obbliga a un’attenzione particolare a evitare ogni collusione con la distorsione cognitiva/ relazionale tanto più a tutela di un bambino. Tutela offerta con l’indicare al Giudice le misure necessarie e col non assumere atteggiamenti collusivi con i comportamenti e i dati psichici di chi del minore non sa farsi carico.

Tale mandato pone in un conflitto etico, di deontologia professionale, in particolare quando il consulente è un clinico. Ovviamente la netta differenziazione dal contesto terapeutico non pone neppure il problema di attivare movimenti rielaborativi, attraverso le opportune interpretazioni. Ma come affrontare il problema della falsificazione della realtà e della distorsione con il genitore, e poi anche con il bambino? Come non dare a quest’ultimo almeno la possibilità  di una rappresentazione diversa di sé e della sua storia, e al primo un avviso dei rischi che corrono sia il figlio che lui medesimo nella relazione col suo bambino?

Si tratta di interrogativi aperti, che costantemente ad ogni ripresentarsi delle situazioni descritte si rinnovano, rendendo necessario ogni volta ripensare e rivedere, riflettendovi attentamente, principi e assunti di teoria e di tecnica innanzitutto psicodiagnostica, ma anche della psicoterapia. In attesa che una migliore e più articolata comprensione delle dinamiche psicologiche e relazionali sottese possa apportare contributi preziosi.

La confusione iniziale creata dalle disposizioni di Re Giacomone fu enorme, ma poi la gente si abituò e si conformò. Nessuno pronunciava più le cose col proprio nome, né osava più dire la verità. La prospettiva terribile della prigione o del manicomio tratteneva ogni abitante dal contrastare l’assetto imposto. Gelsomino non riusciva proprio ad abituarsi ad una simile realtà: non resistette dal pensare come intervenire per far comprendere agli abitanti di quel paese il valore della verità. Riuscì così grazie alla sua inventiva forzare e demolire il sistema su cui si reggeva il tirannico re: utilizzando la sua potente voce, riuscì a produrre una tale onda d’urto da abbattere il manicomio, facendo riguadagnare la libertà alle persone ivi rinchiuse. Raccontare bugie non è davvero un bell’affare, Gelsomino avverte fin da subito che il Paese dei Bugiardi è il luogo più triste della terra, ma anche Giacomone, alla fine, troverà una nuova vocazione.

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Femminicidio e orfani ‘speciali’, oltre 1.600 dal 2000 al 2014