La clinica in contesti non clinici: la Consulenza Tecnica d’Ufficio
Pubblicato in Quaderni de Gli Argonauti, n. 9, giugno, 2005, p. 79-95
PREAMBOLO
“Il quesito peritale”
“Esaminati gli atti e i documenti di causa ed effettuati tutti gli accertamenti ritenuti opportuni, la Ctu, eseguendo ogni test ritenuto opportuno ed eventualmente avvalendosi anche di esperti di sua fiducia, proceda ad un’accurata osservazione e valutazione psicodiagnostica della struttura di personalità della madre, del padre e della minore, delle dinamiche relazionali esistenti tra gli stessi genitori e tra questi e la minore, indicando l’esistenza e la potenzialità delle risorse nello svolgimento delle funzioni genitoriali di ciascuno; proceda altresì ad una osservazione dei contesti familiari in cui i genitori vivono, anche procedendo alla valutazione di eventuali terzi presenti e della qualità della loro relazione con la minore, specificando quali siano eventualmente gli interventi di sostegno utili o opportuni per la minore e i genitori.”
Un esempio di quesito, forse tra i più articolati e completi, ma sempre più frequenti e ricorrenti, tanto da sostituire spesso quelli tradizionalmente utilizzati per le consulenze nell’ambito delle cause di separazione e divorzio, che indicano semplicemente la richiesta di conoscere quale sia il miglior regime di affidamento e la frequentazione con il genitore non affidatario (o “collocatario”, seguendo le indicazioni della recente legge).
Quesiti di questo tenore, così precisi e minuziosi, nelle cui trame è possibile rintracciare una sensibilità psicologica del giudice, un’abitudine a trattare con la materia e una propensione a cogliere appieno il significato di una richiesta ad un esperto di disciplina psicologica, pone il consulente in una posizione che può essere al pari estremamente facilitata e particolarmente complicata.
Rispondere a tale quesito significa, infatti, poter disporre di una “strumentazione” tecnica di particolare competenza e ricchezza, declinata su piani diversi e complessi nella loro reciproca necessaria interazione.
Vuol dire, cioè, affrontare un discorso eminentemente e squisitamente “clinico”: si deve affrontare una diagnosi multidimensionale, in cui la personalità di adulti e minori possa essere approfonditamente indagata e conseguentemente descritta e valutata, ricorrendo a precise competenze nella psicologia e psicodiagnostica dell’adulto, così come dell’età evolutiva, una osservazione e una valutazione delle dinamiche relazionali tra i soggetti in esame, per cui ci si deve avvalere di una competenza “sistemica”, di lettura e di interpretazione delle reti relazionali nei gruppi familiari, formulare una prognosi, indicando le risorse presenti, potenziali e residue in ciascuno dei soggetti, in particolare negli adulti, indicare gli interventi idonei a produrre modificazioni considerate come opportune, ma non solo, anche necessarie sul piano clinico.
Si tratta, allora, di operare ad un duplice livello: quello della persona, adulto o minore che sia, e quello delle relazioni, ambiti solitamente distinti nella formazione specifica che attiene ad uno o all’altro, in una specificità che deve essere salvaguardata non tanto per motivi ideologici, afferenti alle teorizzazioni che ne sono alla base, quanto piuttosto per serie ragioni di afferenza a metodologie e tecniche terapeutiche differenti.
Evitando il rischio di scadere nella superficialità e nell’approssimazione di una “competenza” troppo estesa, sfilacciata da inopportune smagliature, si deve poter preservare la propria distinta specificità, affiancando competenze maturate in ambiti differenti, in una formazione progressiva che mira ad ampliare il corpo delle conoscenze.
Al presente lavoro ha dato un apporto importante il dottor Lorenzo Fiorina, psicologo, assistente nelle consulenze tecniche d’ufficio.
personali dello psicologo, così come a fornirgli una strumentazione più articolata e ampia in ragione di una difficile, ma possibile integrazione di metodi di lavoro. Ma tutto ciò non è semplice da attuare, e richiede comunque tempi di certa ampiezza.
Non va dimenticato, inoltre, il contesto in cui il consulente si muove: si tratta di un ambito, quello giudiziario, che presenta una sua particolare specificità e grande complessità; diritto e psicologia, pur occupandosi entrambi del comportamento umano, divergono profondamente quanto a metodologia, finalità, ma anche e soprattutto per statuto epistemologico.
Detto tutto ciò, si potrebbe facilmente concludere che il consulente tecnico in materia di minori e famiglia debba essere una sorta di superpsicologo, con una molteplice e solida, nonché approfondita formazione, una capacità di muoversi su diversi livelli e svariati piani, in grado di porsi come esperto quasi in una buona metà degli ambiti di pertinenza della psicologia clinica. In realtà è possibile raggiungere un livello di competenza che possa essere ritenuto e vissuto come accettabile, e persino soddisfacente, affrontando con determinazione le difficoltà insite in quest’ambito pieno di “insidie” professionali, ponendo una costante attenzione ai diversi piani di studio e osservazione, alle differenti strategie di impostazione del lavoro peritale e di proposizione degli interventi, nonché formulazione della risposta al quesito posto dal magistrato.
INTRODUZIONE
“Le difficoltà di un’analista alle prese con il contesto peritale”
Dopo anni di attività in un servizio consultoriale pubblico, dove in qualità di psicologa mi occupavo di tematiche legate alla famiglia e di psicodiagnosi dell’età evolutiva, mi è stata offerta la possibilità di partecipare alla realizzazione del primo servizio pubblico di mediazione familiare (Gea - Genitori Ancora). Iniziava così una nuova fase della mia attività professionale, di cui parte importante aveva una nuova tranche formativa. Parte di certo rilievo della formazione riguardava lo studio delle dinamiche della separazione, per l’acquisizione di conoscenze indispensabili alla conduzione di un intervento di mediazione.
L’interesse per tali tematiche, sia sul fronte degli adulti, la coppia coniugale e parentale, sia su quello dei bambini, i figli e i nipoti, mi indussero ad accettare i primi incarichi di consulente tecnico. Le difficoltà nell’affrontare un ambito così complesso sono state molte poiché il contesto si è presentato immediatamente di certa complessità, lasciando intravedere alcune difficoltà nella conciliazione tra la richiesta che in tale ambito viene rivolta al consulente e la mia specifica formazione analitica.
L’esperienza sviluppata trattando le problematiche della famiglia e dell’età evolutiva, pareva facilitare la trasposizione delle competenze maturate ad un contesto operativo differente. Ma la complessità posta dall’ambito peritale si è presentata immediatamente come particolarmente consistente, presentando la necessità di operare scelte precise nel modificare la pratica abituale soprattutto sul piano metodologico. Tale complessità deriva innanzitutto dal contesto in cui si svolge, contrassegnato da precise e particolari caratteristiche, come avrò modo in seguito di analizzare.
Mi sono, così, ritrovata a dover modificare non solo la tipologia del mio intervento, adattandolo ad un contesto che appartiene ad un ambito disciplinare diverso da quello psicologico, ma anche, ben presto, l’habitus mentale, il modo di pensare e progettare i singoli momenti del mio operare, dovendo al contempo operare ampie e profonde modificazioni a quello che era divenuto ormai un mio “stile” clinico personale, adattandolo e riadattandolo in varie fasi successive. Non volendo rinunciare alla mia impostazione di psicologa clinica, ma individuando, anzi, la possibilità di usufruirne pienamente per un intervento più efficace e perciò più funzionale alla domanda, e pertanto anche per me più soddisfacente, ho dovuto modificare molti aspetti, piccoli e grandi, anche molto importanti.
“LA CONSULENZA TECNICA”…
Secondo il nostro ordinamento (Art. 61 del Codice di Procedura Civile), il giudice nell’assolvimento del suo compito giudicante può avvalersi di un perito di sua fiducia, relativamente ad una singola fase o a l’intero percorso giudiziario, non essendo ritenuto in dovere di possedere tutte le conoscenze tecniche che la trattazione di materie diverse necessariamente richiede per il processo decisionale.
Il giudice viene, per altro, definito peritus peritorum, formulazione che ben definisce i compiti e le funzioni: il giudicare e il decidere rimangono attributi del giudice, mentre il consulente assume il ruolo di strumento utile all’acquisizione di elementi necessari ad una formulazione del giudizio meglio rispondente alle caratteristiche e alle necessità poste dalla materia in esame, rimanendo così il giudice unico responsabile della decisione.
Innanzitutto è necessaria una premessa. Intendo riferirmi, in questo contesto di studio, alla consulenza tecnica in ambito civile, in materia di diritto di famiglia, ossia riguardante minori e famiglia. Essa ha a che fare, dunque, con le problematiche riguardanti i nuclei familiari, che vedono coinvolti adulti in qualità di genitori, e di parenti, bambini nel ruolo di figli, eventualmente altre figure adulte, che possono essere componenti della famiglia ricostituita o operatori di servizi che si occupano del bambino e del suo contesto di vita. Le consulenze in tale ambito riguardano la separazione e il divorzio, la crisi familiare, il maltrattamento e l’abuso, l’allontanamento del minore dal suo nucleo e l’affidamento eterofamiliare o ad una comunità, la dichiarazione di adottabilità.
La consulenza tecnica si configura formalmente come un intervento specialistico di qualità valutativa, in cui la componente trasformativa non è contemplata, né nelle norme che ne descrivono la funzione e gli scopi, né nel mandato da parte del magistrato. Come si svolgono le perizie? Quali aspetti vengono osservati, indagati, valutati e con quali modalità, avvalendosi di quali strumenti? Quali le competenze richieste al consulente?
La consulenza prende avvio dalla decisione del giudice di avvalersi di un esperto di sua fiducia, ritenendo di dover disporre di un numero superiore di dati informativi e conoscitivi, maggiormente specifici rispetto a quelli in suo possesso, maturati nel corso dello svolgimento del processo, il cui reperimento ritiene sia da delegare ad uno specialista. La finalità di tutela del minore posta come prioritaria nei procedimenti civili e penali in materia di famiglia e minori, porta a considerare la nozione di “rischio”, la cui determinazione diviene di importanza centrale all’interno del processo decisionale. Si tratta allora di precisare i bisogni di tutela e protezione del minore a livello personale, relazionale, sociale, individuando con precisione quelle condizioni e quelle situazioni che presentificano il rischio di comprometterne lo sviluppo e l’evoluzione della sua personalità, ledendo diritti ormai da tempo sanciti anche a livello internazionale (ad esempio Carta dei diritti del fanciullo del 1989, ratificata dall’Italia nel 1991).
Passo successivo è la nomina del consulente, tramite una comunicazione formale che indica la data dell’udienza destinata al conferimento dell’incarico e al giuramento del consulente. Nel procedere ad analizzare in cosa consista il lavoro di consulenza, è opportuno premettere che per la complessità dell’operazione e la variabilità dei fattori in gioco, è indispensabile per il perito condurre una attenta valutazione della domanda e del contesto in cui è chiamato ad operare.
Analizzare il contesto significa per il consulente valutare attentamente in quale campo è chiamato ad operare e a chi deve dare risposta. Ciò significa individuare le valenze simboliche del contesto (Tribunale per i Minorenni, Tribunale civile, Tribunale di sorveglianza), individuando così gli scopi e le funzioni di tali organismi.
Il consulente si trova a riflettere attentamente su quale sia il cuore del problema nella sua prima formulazione in ambito giudiziario, ossia quale sia il comportamento che ha determinato l’avviarsi della procedura (una conflittualità separativa, un comportamento deviante, una trascuratezza nell’accudimento, un comportamento abusante) e come e quando “il fatto” è entrato nel contesto normativo e giudiziario, dando l’avvio al procedimento che ne riformula la natura inserendolo in categorie giuridiche precise (definizioni del comportamento e riferimento ad articoli di legge).
Si tratta, in un certo senso, di compiere una operazione di decodifica, o meglio di “ri-traduzione”: il comportamento tradottosi in problema giuridico e giudiziario, va riportato alla sua definizione originaria, convertendolo in un linguaggio psicologico, attribuendogli cioè un significato psicologico. Si tratta di un’operazione non semplice, in quanto, se è necessario riportare il dato definito in termini giuridici e giudiziari ad una formulazione psicologica, non va mai dimenticata la definizione che nel contesto giudiziario ne è stata fatta, perché a tale contesto ci si deve sempre riferire ed è a tale contesto che si ritorna una volta elaborata la consulenza, perché la conoscenza maturata sia espressa nei termini propri di tale contesto.
Fa parte integrante dell’analisi del contesto anche un lavoro di analisi sugli organismi “laterali” che del comportamento in oggetto si sono occupati e continuano a farsi, o a doversi far carico. I servizi sociali e psicologici pubblici e privati, le agenzie educative e formative, le strutture comunitarie, gli organismi sociali intervengono con un ruolo sempre non trascurabile, spesso determinante. Importante è allora individuare i diversi codici di lettura, le diverse tipologie di intervento nella situazione, la diversa “cultura” che ne sta alla base, i diversi ruoli assunti, le diverse potenzialità.
Si passa poi ad un’altra fase, in cui il consulente deve attentamente vagliare i tempi del suo lavoro e i luoghi in cui deve situarsi. I “tempi della legge” non coincidono con quelli psicologici, talora differiscono profondamente, per la semplice ragione che rispondono a esigenze diverse. Ognuno dei due contesti è tenuto a formulare una metodologia che soddisfi le proprie esigenze procedurali e conoscitive, secondo il proprio statuto scientifico. I tempi della clinica e della psicodiagnosi e non solo della terapia, sono inevitabilmente più dilatati di quelli del procedimento giudiziario.
Per l’assegnazione dei termini è lo stesso giudice a determinare i tempi, anche se è prassi chiedere al perito di quanto tempo pensa di aver bisogno per assolvere l’incarico. Il consulente sa che i tempi sono generalmente nei procedimenti civili di 90 giorni. Nel campo che abbiamo in esame, quello civile che riguarda i procedimenti a favore dei minori e che concerne la famiglia e le relazioni al suo interno, nel prefigurare spessissimo situazioni contrassegnate da grande fluidità, incertezza di confini, scarsa determinazione, fin anco confuse, disordinate e caotiche, i tempi della comprensione clinica sono inevitabilmente ampi, devono esserlo, pena il rischio di approssimazione, superficialità, imprecisione.
La fluidità della situazione in esame, talora, raggiunge dei punti limite, quando ad esempio proprio nel corso della ctu si verificano eventi di certo impatto e certa pregnanza emotivi, che hanno importanti effetti sulle persone e sulle relazioni che intrattengono, quali una gravidanza, un arresto, un lutto, un trasferimento, una scomparsa. Di fronte ad una famiglia che presenta una situazione problematica a livello relazionale, in cui sono spesso presenti anche una o più problematiche psicologiche individuali, già nel momento in cui il consulente accetta l’incarico può avere una netta percezione, o un fondato dubbio, circa la possibilità che la situazione presenti necessità di studio e osservazione che vanno ben oltre quanto la legge richiede nei tempi di espletamento della perizia. Spesso il consulente accetta l’assegnazione di 90 giorni, ben sapendo che sarà alta la probabilità che sia costretto a chiedere una proroga. D’altra parte, i tempi devono trovare, al pari degli altri parametri, una regolamentazione precisa, non suscettibile di quella variabilità, aleatorietà e discrezionalità che renderebbe l’intervento giudiziario impossibile nel dare alle persone garanzia dell’applicazione delle norme.
Analogamente ai tempi, anche i luoghi possono essere fortemente condizionati dalla norma e dalla procedura. Se nel penale può essere facilmente intuibile come una carcerazione possa limitare il luogo della consulenza, nel civile parrebbe potervi essere una maggiore discrezionalità nella scelta del contesto da parte del consulente, il quale potrebbe voler privilegiare il proprio studio, ambito anche (o soprattutto) simbolicamente contrassegnato dalla clinica. Compaiono nello scenario peritale anche luoghi “esterni” alla stanza di consultazione, importanti da conoscere, in quanto facendo parte della vita delle persone, innanzitutto del bambino, possono grandemente determinare una esatta comprensione della situazione dello stesso e dei suoi familiari. Vi sono situazioni, poi, in cui il contesto esterno dev’essere necessariamente visitato, quando ad esempio un bambino è in istituto, oppure in adozione, o in affidamento eterofamiliare. Altre in cui è precluso, addirittura vietato, come quando, ad esempio, non è consentito mettere il minore a contatto con un determinato ambiente che ha costituito contesto di certa importanza per lui e che non è più agibile per ragioni di sua tutela.
Anche le persone da includere nel lavoro peritale, quali soggetti da conoscere e valutare, osservandone le relazioni intercorrenti, sono spesso determinate dall’esterno e il consulente si trova a dover includere o dover escludere persone, senza seguire le proprie esigenze cliniche. Spesso l’inclusione o l’esclusione di un soggetto o di un altro risponde in pieno all’esigenza, che per il consulente è prioritaria, di rispondere al quesito posto dal giudice, anche in contrasto con quelle che sarebbero le sue procedure cliniche nel caso di una consultazione libera e spontanea. Non è mai indifferente, al pari di ogni altro atto clinico, scegliere l’inclusione di un soggetto, piuttosto che di un altro, per la inevitabile attribuzione di valenze simboliche precise e determinate, di cui il soggetto può essere anche ignaro, o inconsapevole, ma di cui il consulente deve accuratamente tener conto. Si tratta di un punto di grande delicatezza, in quanto includere o escludere un soggetto condiziona fortemente la comprensione e la definizione dei contesti relazionali esistenti in quella determinata situazione.
È, insomma, l’intero setting ad essere fortemente limitato nella possibilità di sceglierne le forme e i modi. Nonostante ciò, pur muovendosi in un contesto così determinato dall’esterno, è indispensabile che lo psicologo intraprenda una propria ridefinizione delle regole, cercando di integrare quelle dettate dal giudiziario alle proprie di ordine clinico. L’attenzione al setting è alla base di qualsiasi intervento voglia e debba configurarsi come clinico e, anche in ambito peritale, lo psicologo può e deve ridefinire e rideterminare le regole del suo operare in funzione delle esigenze poste dalla clinica, senza mai perdere di vista le regole imposte dal contesto giudiziario. Al pari di ogni intervento clinico in ambito istituzionale, l’importanza della determinazione di regole precise preserva dall’avviarsi di un processo confuso e confusivo, in cui la discrezionalità si fa imprecisione, indeterminatezza, superficialità sul piano tecnico, mettendo di conseguenza a rischio l’intera operazione conoscitiva e pregiudicando gli esiti trasformativi e il prosieguo terapeutico.
Si è accennato ai cambiamenti che una nuova legislazione in ambito di famiglia e minori (il nuovo diritto di famiglia del 1975) ha prodotto non solo in ambito giuridico e giudiziario, ma anche nella mentalità delle persone, così come degli operatori del diritto e dei servizi di aiuto alla persona. Il dato essenziale è, come detto, l’introduzione della priorità assoluta data al concetto di tutela del minore, fine prioritario da perseguire e criterio indispensabile da seguire.
In realtà, a questo punto, diviene abbastanza evidente come non si possa non parlare di clinica a proposito del lavoro di consulenza tecnica. La perizia, trattandosi di un intervento altamente formalizzato, che si declina in momenti e passaggi rigorosamente determinati e regolamentati (un incarico rituale, un quesito tassativo, la presenza del contraddittorio in ogni fase e in ogni momento, metodologie e procedure precisamente dichiarate), costituisce la forma più distinta di lavoro clinico in ambito giudiziario.
Quale clinica? Si può parlare di “clinica” su due piani: quello della lettura e quello dell’intervento, piani per altro compenetrabili, nel senso della possibilità di una contemporanea presenza, ma anche di una presenza autonoma, indipendente l’una dall’altra. Interessante è rintracciare le dissonanze e le assonanze nelle fasi e nei momenti in cui il lavoro peritale trova la sua articolazione. In seguito sarà altrettanto interessante individuare quanto il lavoro peritale possa utilizzare, avvantaggiandosene grandemente per il raggiungimento dei suoi scopi, la clinica, ossia le teorizzazioni, le tecniche e gli strumenti della stessa.
Da quanto descritto discende inevitabilmente la considerazione della grande differenza dei due ambiti, della distanza esistente tra contesto clinico e contesto peritale. Nella consulenza tecnica, pur sempre disposta dal giudice, possono però comunque intervenire fattori appartenenti alle strategie legali, che “fanno pressione” nella direzione della decisione di avviare una ctu. Spesso gli scopi che i diversi attori si prefiggono, esplicitamente o implicitamente, non coincidono. Se formalmente, infatti, lo scopo unico ed essenziale della consulenza è, seguendo la normativa, la tutela del benessere del minore, e a tale scopo tutte le componenti coinvolte aderiscono formalmente, mantenendosi fermo per giudice e consulente, nella realtà della concretizzazione e declinazione del lavoro peritale, gli obiettivi delle singole parti possono differire anche grandemente fino a divenire anche totalmente divergenti, supportate da ragioni personali. Ciò può creare, come sovente accade, complicazioni anche di certa consistenza e di difficile risoluzione, nel costringere il consulente a ribadire e riaffermare la priorità degli interessi del minore su quelli delle altre parti adulte implicate.
Nel caso della richiesta di un intervento psicoterapeutico, gli scopi di terapeuta e paziente coincidono al momento della formulazione del contratto, potendosi così configurare la concreta possibilità di avviare un lavoro congiunto, dovendo percorrere un cammino che ha una meta chiara, condivisa da tutte e due le parti. Le “deviazioni”, frutto dell’interferenza di elementi e di ragioni inconsce, diventano materiale del lavoro terapeutico nel loro utilizzo ai fini dell’ampliamento di conoscenza e di supporto alle trasformazioni avviate.
Costituisce una differenza essenziale la modalità in cui i due interventi prendono avvio: l’uno, quello giudiziario, su “disposizione”, che diviene costrizione, o comunque rimane altamente vincolante, condizionando grandemente i risultati dell’operazione; l’altro si fonda sulla volontarietà, sulla libera scelta individuale, che trova nella alta valorizzazione del rispetto della motivazione del soggetto una sua condizione imprescindibile. Nella consulenza prevale un contesto di giudizio (“tu mi devi valutare”), mentre nella clinica prevale un contesto di aiuto (“tu mi puoi aiutare”). Va sottolineata la non volontarietà dei soggetti coinvolti nell’indagine peritale: le persone non chiedono mai l’intervento dello psicologo, almeno nelle fasi iniziali, anche quando compare una richiesta rivolta al giudice, poiché collocata all’interno di una strategia legale e pertanto mai scevra da motivazioni estrinseche rispetto a quelle strettamente personali.
Il contesto peritale, inoltre, si configura come lo scenario in cui si affacciano, intervengono e transitano diversi attori, costituendo un contesto allargato. Si tratta, infatti, di un setting popoloso e popolato, spesso persino “pieno” di presenze ingombranti.
Importante la differenza tra i due ambiti. Per i terzi in ctu, ovvero le persone al di fuori del nucleo ristretto, ovvero nonni, zii, nuovi compagni, operatori dei servizi, assistenti sociali, insegnanti, si valutano solo alcuni aspetti: dipendenza-indipendenza, l’immagine che hanno del figlio e del compagno, l’immagine della situazione, il grado di investimento affettivo e il grado di intrusività nel ruolo genitoriale, rispetto al minore. Riguardo alla qualità del nuovo legame di coppia, come si pone la nuova compagna e come si relaziona rispetto alla madre naturale? Esercita un ruolo genitoriale vicariante? Come vive il figlio del compagno, quanto è integrato nella nuova costellazione familiare? Come sono i rapporti tra i figli dei due nuovi compagni? Vi sono gerarchie, disparità?
Se sono contemplati contatti e colloqui con operatori istituzionali, è importante valutare il grado di influenza e di condizionamento operato dalla loro appartenenza alla cultura del servizio e dell’istituzione cui appartengono.
Assumere decisioni, operare invii, progettare interventi, trasmettere atti, costituisce la realtà quotidiana del lavoro all’interno del sistema giustizia, che coinvolge diverse professionalità, diversi ambiti istituzionali, diversi attori. Profonda è la distanza dal contesto terapeutico, dove a intervenire è solo chi direttamente è coinvolto nel progetto, sia il singolo nella terapia individuale, sia la coppia nell’intervento di coppia, sia la famiglia nell’ottica sistemica.
Non si tratta delle presenze fantasmatiche relative all’immaginario del paziente, specchio e riflesso delle relazioni esterne intessute con le figure significative del suo universo affettivo e relazionale, quanto piuttosto presenze concrete e appartenenti al più vasto ambito relazionale e sociale, al contesto collettivo in cui l’individuo appartiene.
Fa parte del contesto in cui lo psicologo clinico opera il rispetto e la tutela di uno spazio privato, in cui l’espressione di sentimenti, affetti, fantasie ha la necessaria garanzia dell’intimità e della riservatezza. Il “privato” del paziente viene condiviso, ma resta sempre in una sfera di intimità preservata. Il segreto professionale è parte integrante del contratto che istituisce e avvia il rapporto tra psicoterapeuta e paziente, accanto alla condivisione della pertinenza dell’intervento nel prevalere comunque della competenza del paziente a deciderlo, e alla motivazione di quest’ultimo a intraprenderlo e proseguirlo. Pare trattarsi di un vero e proprio “tradimento” del privato, nel proporre in un contesto così “pubblico” argomenti che appartengono alla sfera intima delle relazioni personali, dal significato psicologico di indubbia pregnanza.
Punto importante all’interno di questo “affollamento” del contesto peritale è costituito dalla presenza istituzionalmente prevista dei consulenti di parte, colleghi psicologi e psichiatri, figure che garantiscono il contraddittorio. Ben diversamente dalla situazione di équipe multidisciplinare, quale è presente in molti servizi, il consulente non può non condividere con i colleghi la programmazione e la progettazione di ogni passo e di ogni momento in cui si declina e si articola il lavoro peritale, riservando alla propria unica responsabilità professionale le interpretazioni proposte e le conclusioni che su queste si basano e fondano, che vengono comunque condivise nella conoscenza con i colleghi di parte. Di fatto, si configura una sorta di “negazione/esclusione” del segreto professionale e non solo per la presenza della relazione peritale, atto pubblico, ma già prima nel concreto dispiegarsi dell’attività peritale, in ogni passo del lavoro, in ogni decisione clinica. Vi è inoltre, quale parte altrettanto importante del nodo tra privato e pubblico, la “resa pubblica” dei risultati (relazione) nel riferirsi ad altri attori diversi dai soggetti con cui si è lavorato in perizia.
Rimane prioritaria, nel lavoro peritale, la finalità di assolvere ad un compito conoscitivo finalizzato al processo decisionale; è imprescindibile nell’intervento clinico la finalizzazione alla cura, intesa come possibilità di avviare un processo trasformativo che porti ad un miglioramento delle condizioni psicologiche della persona. La tutela della salute e il suo ripristino esulano, invece, dai compiti assegnati al consulente, fatta eccezione per il minore, la cui salvaguardia e tutela del benessere può portare il giudice a richiedere un intervento che, raggiunto un livello appropriato di conoscenza della sua situazione personale, familiare e sociale, possa agire su di lui e sul contesto in cui vive, apportando quelle modifiche individuate come opportune per modificare l’assetto relazionale ed esistenziale. Ma si tratta di richieste frutto della particolare sensibilità di giudici, che nel modo di guardare all’intervento dello psicologo clinico nel contesto peritale accolgono le trasformazioni di “mentalità” giuridica attualmente in corso.
Anche rispetto ai tempi propri di ognuno degli ambiti emergono differenze importanti: la consulenza ha tempi rigorosamente definiti e ogni dilazione deve essere adeguatamente motivata sotto il profilo tecnico all’interno del quadro procedurale; i tempi sono inoltre assai contenuti in uno spazio di tempo chiaramente definito e come tale percepito dai partecipanti al processo.
Non trattandosi di un contesto terapeutico, deve essere posta una grande attenzione ad operare interventi che assolvono compiti diversi e specifici: i soggetti hanno diritto a conoscere gli esiti delle indagini peritali, ovvero della valutazione che di loro come individui, e come genitori, nonché come nucleo familiare è stata compiuta; al contempo non devono essere oltrepassati i limiti posti da un intervento non chiesto, né attivamente ricercato dai soggetti, che ne “subiscono” l’imposizione, anche quando ne ravvisano l’utilità nel portare vantaggi alla strategia processuale, secondo le indicazioni dell’avvocato. Nel lavoro peritale non può esserci neppure quell’intervento che interviene al termine di una consultazione richiesta per problematiche personali o dei figli, quando è opportuno restituire il senso della valutazione operata della situazione psicologica del o dei soggetti, tentando di attivare un processo di conoscenza che abbia una valenza trasformativa, in risposta ai problemi individuati e messi in evidenza.
Anche nel caso del lavoro di consulenza può essere richiesta l’indicazione degli interventi opportuni per i genitori, o i familiari, e il minore, ma vi sono condizioni differenti dalla consultazione su richiesta, che rende lo psicologo complessivamente più libero di fornire le indicazioni che ritiene idonee, indicandone le modalità, i tempi, anche gli specialisti individuati come meglio rispondenti al caso. Nella consulenza tecnica, il rinvio è sempre ad altro operatore e di disciplina diversa, il magistrato, che solo può recepire l’indicazione tecnica e riformularla in termini che divengono prescrittivi, anche quando la formulazione trova forma in espressioni quali “invita i genitori a….”.
Detto tutto ciò, tuttavia appartiene alle recenti elaborazioni della psicologia giuridica, nell’importante elaborazione di una sua specificità all’interno del doppio contesto psicologico e giudiziario, con l’articolazione di statuto epistemologico, presupposti teorici e metodologia, iniziare a prendere una posizione precisa in merito al confine tra diagnosi (conoscenza) e terapia (cura), nell’individuazione esatta degli effetti che l’intervento peritale inevitabilmente produce sull’individuo, oltre che sul sistema di relazioni che intercorrono tra i soggetti sottoposti alla valutazione.
E torna, anche a proposito di questo importante nodo teorico e pratico, una assonanza con la clinica. L’obiettivo di mantenersi all’interno di finalità conoscitive precise fa sì che valutazione e accertamento non ostacolino, ma anzi al contrario usufruiscano della modalità clinica di approccio, in quanto si tratta di esaminare e interpretare dinamiche psicologiche e relazionali complesse intercorrenti tra individui, ma anche istituzioni ed enti, dinamiche tutte che vanno a comporre un quadro di certa complessità, che una mentalità e una strumentazione, nonché una rigorosa metodologia clinica rendono più comprensibile.
E’ un percorso che inizia in un certo momento della vita delle persone, bambini e famiglie, che ha una sua storia, dipanandosi in un tempo, nella scansione di diversi momenti, fino a raggiungere una conclusione, che ne determina la fine e la chiusura.
Si tratta di considerare la portata simbolica di un contesto, quello sociale e collettivo presente in un contesto peritale, quando si costella la rete di significati che all’operazione giudiziaria, ai suoi scopi, ai valori da cui è originata e che al contempo supporta e contribuisce a mantenere, al pari di quella del contesto terapeutico, dove l’individuo porta la sua specifica individualità che fa, però, parte di un ambito più vasto, di una rete relazionale dai forti risvolti simbolici, nelle sue componenti familiari e sociali riferibili ad un collettivo più ampio. Difficile allora considerare l’atto terapeutico come rivolto al singolo senza considerare gli effetti che una trasformazione a livello personale di un individuo inevitabilmente produce sul suo ambiente relazionale, senza necessariamente pensare ad un effetto di tipo culturale, per altro sempre presente. Per l’intervento clinico in sede peritale è, forse, più facile cogliere e riconoscere quelle valenze trasformative anche ad un livello più ampio del singolo individuo e della singola famiglia, quando la proposizione di valori collettivi di certo spessore (i diritti dei bambini, i doveri verso i figli, le regole coniugali e i compiti educativi, le competenze affettive, il ruolo della famiglia, la salute e il benessere familiari) è più percepibile.
In entrambi gli ambiti il setting è preciso, rigorosamente determinato nelle sue proprietà che devono essere ben definite. Il consulente, così come il clinico, deve ben conoscere le caratteristiche del proprio setting, operando una attenta riflessione, in base alle proprie conoscenze teoriche e alla propria pratica professionale, su quali debbano essere le qualità specifiche che assume come proprie, in una scelta consapevole e ragionata che garantisce l’efficacia e l’attendibilità del processo. Comune è l’attenzione all’adozione di una metodologia specifica ben precisa, adattata al massimo al contesto e alle finalità poste: si tratta infatti di compiere scelte precise circa il numero degli incontri e la natura delle operazioni da compiere e gli strumenti da utilizzare.
In entrambi i casi, lo psicologo è tenuto a considerare prioritariamente il benessere, la salute psichica del soggetto che deve conoscere e con il quale si propone di avviare un lavoro comune di conoscenza; è primario in un caso il benessere del minore, nell’altro del paziente.
La richiesta di una valutazione psicodiagnostica può costituire una differenza dall’intervento clinico che si configura come analisi in senso classico o come psicoterapia a orientamento psicodinamico in un ambito privato. Nel caso di percorsi psicoterapeutici, si può avere una diagnosi “in itinere” e, anche quando viene effettuata all’inizio o ad introduzione del successivo percorso terapeutico che ne consegue, ha modo di trovare via via successive utili e opportune correzioni, proprio in connessione con quanto emerge nello svolgersi del discorso clinico. In ambito peritale l’affermazione diagnostica ha un peso specifico considerevole, ben rilevante nel suo essere riportato in sede giudiziaria.
Nel servizio pubblico precede il rinvio a psicoterapia una psicodiagnosi preliminare necessaria ad un esatto inquadramento.
Strettamente collegato al problema diagnostico, è quello degli strumenti che lo psicologo consulente deve poter usare nel contesto peritale, mantenendo la sua specificità clinica. Il lavoro clinico in ambito giudiziario deve disporre di tutte le competenze e di tutte le strumentazioni proprie della psicologia clinica, ma deve al contempo operare sempre delle scelte ben ponderate e specifiche, sia in ragione dei suoi compiti e dei suoi obiettivi, rigorosamente individuati e determinati, sia soprattutto in ragione della conoscenza puntuale dei suoi contesti, che hanno una rilevanza enorme per la loro capacità di determinare le operazioni e le interazioni conoscitive.
Si tratta in entrambi casi di colloqui che ben possono assumere la natura di un colloquio clinico nella più rigorosa accezione del termine. La conduzione del colloquio risente nella sua natura e nell’articolazione della specifica e particolare formazione del consulente, riflettendo le formulazioni che a tal proposito diverse teorizzazioni hanno elaborato. Molto dipende dalla formazione personale e professionale del consulente d’ufficio: se si colloca all’interno degli ambiti psicodinamici, difficilmente riuscirà a rinunciare ad una impostazione che in tale campo diviene atteggiamento mentale, disposizione personale, al di là dell’adesione ad un modello teorico e ad una impostazione metodologica specifici in ambito psicodinamico.
Tra gli strumenti assumono un certo rilievo i test. Nel quesito viene ormai sempre più spesso richiesta l’indagine psicodiagnostica sulla personalità dei genitori, mentre quella sulla personalità del figlio compare ormai da molto tempo. Vi è allora la richiesta di assumere anche una valenza diagnostica, nel porsi come finalità importante la conoscenza del soggetto, dell’individuo, del bambino, della famiglia, delle relazioni tra soggetti.
Importante inoltre anche la finalità in perizia di individuare la presenza di “patologia” individuale in uno o entrambi i genitori e dei livelli di tale “patologia” in relazione alle ricadute/conseguenze per il bambino. Difficile allora pensare ad una psicodiagnosi che prescinda dalla clinica, quando per effettuarne una di spessore e complessità soddisfacenti lo psicologo deve potersi avvalere di conoscenze, competenza e sensibilità, maturate in campo clinico. La stessa effettuazione dell’indagine testale, pur potendo essere svolta da psicologi con formazione non psicodinamica, risente in modo ben visibile proprio della competenza psicodinamica. Si pensi ai test proiettivi, che sono ormai i test più riconosciuti e utilizzati in campo giuridico. Per il Rorschach, il TAT, il Blacky Pictures, la sensibilità e la competenza del clinico sono essenziali a “far parlare” le risposte, traendone il massimo in termini di conoscenza della struttura di personalità del soggetto, del suo funzionamento psichico, delle sue strategie difensive, dei suoi nuclei patologici, dei suoi conflitti, e così via. Un test deve potersi inserire sempre all’interno di una cornice rigorosamente clinica, che ne garantisce la fruibilità piena in termini di conoscenza, dandone la garanzia di una validità ed efficacia, che la semplice somministrazione avulsa dal percorso clinico non può raggiungere. Essenziale sottolineare come in ambito peritale, non diversamente da ogni altro ambito clinico, la strumentazione testale non può, né deve mai avere una propria autonomia diagnostica, non acquisendo alcun valore se non inserita in una valutazione complessiva e unitaria che si avvale in via prioritaria e principale dell’osservazione e dell’interazione clinicamente effettuati e valutati.
La richiesta, allora, di effettuare una psicodiagnosi all’interno della consulenza diviene una parte importante del lavoro peritale, le cui conclusioni devono poterne tener conto, basandosi in una parte decisiva proprio sugli elementi che il percorso diagnostico fornisce. E per una diagnosi psicologica adeguata e appropriata, l’apporto della clinica è fondamentale.
Importanza assume allora l’analisi della tipologia (qualità e natura) dello scambio comunicazionale, delle interazioni dialogiche e analogiche tra i genitori, della proporzione esistente tra scambi diretti, “verbalizzati” e “agiti”. Si tratta di elementi essenziali per la comprensione e successiva interpretazione e descrizione della dinamica relazionale in essere tra i componenti, importanti anche per il delicato punto della “prognosi”, ovvero della previsione relativa alla “tenuta” dei soggetti nel contesto peritale in quanto contenitore di un pensiero concreto e autentico sul bambino. In tal senso, non è da valutare solo, o non tanto, la presenza di patologie personali dei genitori, lievi o gravi che possano essere, quanto piuttosto in che misura i disagi personali, ma anche le caratteristiche di personalità e i tratti di carattere permettano ai singoli genitori di assumere e svolgere adeguatamente ruolo e compiti genitoriali e costituire una coppia genitoriale, separata e distinta dal loro essere coppia coniugale, che possa adeguatamente funzionare in modo congruo e consono alle esigenze di ordine affettivo, emotivo, cognitivo e relazionale del o dei figli.
Centrale diviene allora operare un’attenta ricognizione della reale ed effettiva presenza di un’area genitoriale realizzatasi prima della crisi di coppia e dell’unità familiare, della natura e delle caratteristiche di essa e di come si rapporti con l’area della relazione di coppia coniugale. Il fine è di individuare con accuratezza e precisione l’esistenza e la permanenza, nonostante la crisi, di un’area genitoriale comune preservata dal conflitto e di valutare parallelamente e contemporaneamente la presenza di una immagine interiorizzata del bambino condivisa e condivisibile. Corollario, ma di non minore importanza, è inoltre la valutazione della presenza di un’area genitoriale realmente e concretamente condivisa, che non è di per sé garantita nella sua esistenza dalla presenza di uno spazio genitoriale personale di uno o entrambi i genitori individualmente. Ciò vuol dire operare una precisa rilevazione delle risorse genitoriali presenti, sia nella parte che trova concreta espressione nella “gestione” quotidiana delle relazioni con il figlio e degli interventi educativi nei confronti di questi, sia nella parte che rimane percepibile e osservabile a livello potenziale, che potrebbe, se adeguatamente sollecitata, stimolata e aiutata ad emergere, una espressione reale.
Indispensabile è, infine, l’individuazione della eventuale presenza di una “patologia” della relazione di coppia, dato essenziale per formulare una previsione circa la tenuta nel tempo dei risultati ottenuti in sede peritale, l’eventuale riuscita di un intervento di qualità e finalità mediative, in relazione, al contrario, con le forze inerziali che tendono a mantenere la qualità della dinamica relazionale di coppia sostanzialmente inalterata nel tempo, a fronte di mutamenti perciò solo apparenti.
Un ultimo punto comune ai due interventi è la necessità di una attenta opera di verifica degli obiettivi, della qualità e dell’efficacia dell’intervento e possibilmente, anche se più difficile, dei risultati raggiunti o di quelli che si ritiene di poter affermare di aver raggiunto.
Il lavoro clinico è, in realtà, un lavoro di ricerca continua, in cui lo studio e la rivisitazione di ogni singolo caso, di ogni singolo intervento, soprattutto se complesso, è sottoposto ad andamenti alterni e alterne fortune, ed è talora anche passibile di fallimenti o defaillance parziali e passeggere.
Nonostante la possibile assimilazione del lavoro peritale al lavoro clinico, come fin qui illustrato nei punti precedentemente trattati, permangono alcune importanti differenze, che per altro possono essere rintracciate anche all’interno di un confronto tra approcci clinici di orientamento e matrice diversi.
Nella consulenza si tratta del diverso utilizzo di alcuni fenomeni all’interno dei due contesti. Se il transfert e il controtransfert costituiscono, sia pure trattati e interpretati secondo metodi e schemi diversi, una parte importante del lavoro terapeutico, nel caso della consulenza, pur inevitabile nel riconoscimento della loro presenza, non divengono, né possono divenire, oggetto di comunicazione alle persone, non potendo entrare a far parte integrante del lavoro di analisi, introspezione ed elaborazione quale solo in terapia si affronta e si svolge. Il controtransfert si mantiene in entrambi gli ambiti utile e potente ausilio alla comprensione delle dinamiche in atto e alla loro interpretazione, per un adeguato inserimento nel quadro che della situazione intrapsichica e interpersonale della persona in trattamento o in esame il clinico intende delineare e comporre.
Nel lavoro clinico, sono diverse le istanze cui il clinico “si rivolge”: nell’esempio dell’intervento terapeutico, in misure e modi diversi a seconda della cornice teorico-metodologica adottata, il terapeuta si rivolge all’Io, nello stabilire un’alleanza di lavoro che possa contare sulla parte “sana” del paziente e avviare un processo trasformativo che possa avvalersi efficacemente e positivamente del lavoro di elaborazione che la persona può fare, grazie alle competenze e alle funzioni assolte dall’Io stesso. Nel lavoro peritale è inevitabile considerare la presenza massiccia, talora anche ingombrante, della Persona, ossia della parte collettiva della personalità, di quella componente della struttura psichica che funziona da interfaccia tra il mondo interno, l’immagine di sé, il proprio mondo interiore, e il mondo esterno, quello delle relazioni con l’altro, della realizzazione professionale, delle relazioni sociali, dell’appartenenza ad un conscio, così come ad un inconscio, collettivi.
D’altra parte, in entrambi gli interventi, nel clinico così come nel peritale, l’alleanza di lavoro è essenziale per il raggiungimento di un risultato minimamente soddisfacente, che si possa, cioè, cogliere e valutare come rispondente ai bisogni e alle necessità individuate nella particolare situazione di cui lo psicologo si fa carico. Anche nella consulenza, ambito, come abbiamo visto, sottoposto a mille insidie e potenziali “boicottaggi” nella sua indipendenza e autonomia di svolgimento, secondo parametri ritenuti essenziali dal consulente clinico, il tentativo di avviare e mantenere una positiva alleanza di lavoro va sempre esperito, per lo meno nello sforzo di mettere le persone nelle condizioni di apprendere e possibilmente anche comprendere i passaggi della lettura che della situazione del figlio e della loro in quanto genitori e famiglia si è fatto, mantenendo centrale l’obiettivo di mettere i genitori stessi in grado di operare una tutela del figlio e degli interessi di questi, sia pure parziale e limitata, ma pur sempre avvio e inizio di una capacità che progressivamente possa ampliarsi e assestarsi in forme più adatte e complete.
….”E IL CONSULENTE”
Una volta esaminati il contesto, le tecniche e le metodologie, i concetti e le prospettive, l’attenzione va portata sulle figure professionali che della consulenza si fanno carico. Intendo riferirmi esclusivamente alla figura dello psicologo, non volendo, né potendo comprendere altre figure professionali che intervengono nel contesto peritale, quali lo psichiatra e il neuropsichiatra infantile.
Inevitabile e preliminare è il discorso della necessità per il consulente, a qualsivoglia ambito teorico e metodologico si riferisca, di una buona conoscenza delle problematiche che deve affrontare, sviluppando una competenza che è sottoposta a verifiche continue, non solo al pari di ogni disciplina scientifica in ragione delle successive continue elaborazioni teoriche e alle acquisizioni pratiche che vanno a modificarne lo statuto teorico, ma anche per i mutamenti che in una disciplina diversa e indipendente, il diritto, si verificano.
La formulazione di nuove leggi pone difficoltà di certa rilevanza: esse non sono sempre facilmente “traducibili” in un linguaggio e in un “senso” psicologici. Seppur stimolate e prodotte da mutamenti nella sensibilità collettiva, così come dalla trasformazione dei costumi in relazione all’epoca storica, che vengono recepiti dal legislatore, pongono problemi di accoglimento e modifica nella pratica professionale del consulente.
Assume, poi, una rilevanza particolare un altro aspetto relativo alla figura del consulente: le sue competenze. Le richieste rivolte al consulente lo confrontano con la necessità di operare ai diversi livelli e alle diverse dimensioni in cui si esprimono e si presentano le persone coinvolte: si tratta di un lavoro che esamina personalità adulte, soggetti in età evolutiva, gruppi familiari, sistemi istituzionali. Le competenze di uno psicologo che si occupa di personalità adulte sono necessariamente differenti e differenziate da quelle di chi si occupa di soggetti in età evolutiva. Pur essendovi teorizzazioni circa la possibilità, se non la necessità, di assommare e non differenziare i due ambiti di intervento, credo che le due fasce di età debbano poter mantenere una loro distinzione preziosa all’interno della pratica clinica, nella prevalenza di una competenza personale specifica. Ciò non toglie sia di estrema utilità operare nella formazione personale dello psicologo una integrazione tra iter formativi in entrambi gli ambiti, che possa supportare, anche nel caso di una scelta precisa di un ambito o nell’altro, una competenza più ampia, allargata alla conoscenza delle dinamiche psichiche, ai percorsi evolutivi e alla psicopatologia dell’adulto, piuttosto che del bambino e dell’adolescente.
Saperne di psicologia e psicopatologia dell’adulto e del bambino pare non poter essere sufficiente, o comunque adeguato, ad affrontare una valutazione su più piani; avere allora una competenza anche nelle dinamiche relazionali e gruppali, per poter valutare la qualità e la tipologia di esse, in relazione all’osservazione e valutazione dei sistemi interagenti, delle loro interconnessioni e delle loro strategie, comporta un certo non trascurabile vantaggio nei termini di comprensione adeguata della situazione di quel bambino e dei suoi contesti esistenziali, nonché per la formulazione di piani di intervento, parte che risulta imprescindibile dal lavoro di osservazione e valutazione, dovendosi configurare una decisione sul futuro, e perciò sul destino di quel bambino.
Saperne di bambini aiuta senz’altro nell’individuare, ma soprattutto adeguatamente interpretare i comportamenti di un bambino in una situazione complessa e difficile, determinata dalla presenza di conflittualità familiare, abuso o maltrattamento, allontanamento dal nucleo familiare o adozione, formulando le ipotesi interpretative necessarie a fornire della sua situazione un quadro il più possibile completo, elemento prezioso per una decisione che deve essere ben ponderata, comportando modificazioni estreme nella e per la vita del piccolo, oltre che dei suoi familiari.
Così come saperne di adulti è indispensabile per una corretta valutazione della personalità delle figure adulte, parentali e familiari, che del bambino si occupano e di cui il magistrato chiede di conoscere la possibilità di esercitare un ruolo genitoriale; una conoscenza delle problematiche che il consulente, di qualsivoglia disciplina, deve affrontare, sviluppando una competenza che è sottoposta a verifiche continue, non solo al pari di ogni disciplina scientifica in ragione delle successive continue elaborazioni teoriche e alle acquisizioni pratiche che vanno a modificare lo statuto teorico, ma anche per i mutamenti che in una disciplina diversa e indipendente, il diritto, si verificano nella formulazione di nuove leggi, non sempre, anzi spesso, non facilmente o per nulla “traducibili” in senso psicologico, che seppur prodotte dalla mutata sensibilità collettiva, così come dalla trasformazione dei costumi in relazione all’epoca storica, recepiti dal legislatore, pongono problemi di recepimento e modificazione nella pratica professionale del consulente.
Essenziale, poi, è un lavoro di esame e ricognizione delle competenze genitoriali, ovvero l’accertamento della presenza di figure genitoriali idonee e congrue rispetto alle necessità e ai bisogni di crescita di quel bambino, nella precisa individuazione di eventuali tratti psicopatologici, o anche di franca psicopatologia, nell’adulto, elementi questi tutti di grande importanza per la possibilità, che è anche necessità, di formulare ipotesi prognostiche, ovvero individuare la possibilità per quel bambino di poter proseguire il suo percorso evolutivo, sviluppando la sua personalità in modo adeguato, ma soprattutto sereno all’interno di quel nucleo e con il supporto di quei genitori.
Vi è infine un importante punto. Per lo psicologo che si muove all’interno del contesto peritale è essenziale sviluppare delle competenze adeguate anche nel condividere con altre figure professionali sia parti del lavoro di consulenza, sia i risultati di esso, mantenendo costante un livello adeguatamente soddisfacente di rapporti con altri operatori che nello svolgimento della perizia intervengono, sono intervenuti anche prima e/o continueranno a intervenire anche dopo la conclusione della consulenza.
Va da ultimo trattato un punto di grande delicatezza che riguarda i limiti del lavoro peritale, che trovano espressione nelle difficoltà che spesso si costellano sulla base e a partire dai rischi e dai pericoli che i pregiudizi e gli stereotipi non oggetto di riconoscimento e attento lavoro elaborativo inevitabilmente comportano. Nel lavoro clinico è essenziale un lavoro di personale acquisizione di consapevolezza di sé, della propria personalità, dei propri limiti, dei propri pregiudizi. Se possibile, nel lavoro peritale questo punto assume un rilievo e una importanza ancora maggiori. Questo è argomento ben assimilato nella clinica e ha dato origine ad ampie elaborazioni teoriche (vedi il training analitico). Il lavoro peritale, per suo mandato istituzionale, tocca inevitabilmente corde particolari e di particolare delicatezza, dovendosi occupare di tematiche quali l’allontanamento di un bambino dal suo contesto familiare, l’abuso, il maltrattamento, l’atto criminale, la devianza e la perversione. Si oltrepassano i limiti dell’immaginario per approdare alla dura, terribile concretezza dell’atto e del fatto. Ecco che il rischio di “agire” pregiudizi personali per il consulente è fortissimo, quasi inevitabile.
Come considerare una madre maltrattante, un padre abusante, un’adolescente che uccide i propri genitori, un ragazzino che si prostituisce e ruba, genitori tossicodipendenti. O, ancora, ma su un piano assai meno “inquietante”, come giudicare l’adeguatezza di un comportamento genitoriale, di una modalità educativa, di una competenza parentale. Essenziale, allora, per il consulente è operare e mantenere costante un lavoro di attenzione e di studio e di elaborazione dei propri contenuti, delle proprie reazioni, delle proprie valutazioni cliniche, alla ricerca di strutture preconcette che possono intervenire e operare da filtro inconsapevole dei dati raccolti in vista dell’elaborazione del quadro interpretativo che ne risulterebbe irrimediabilmente condizionato, e pertanto compromesso.
Ne va del libero dispiegarsi della libertà valutativa, del mantenimento di una posizione imparziale e neutrale, del perseguimento degli importanti obiettivi di fornire al Giudice una valutazione sì personale, basata cioè sulla propria personale competenza che è frutto di formazione, acquisizione di abilità e di capacità, oltre che di conoscenze, il tutto filtrato dalle proprie caratteristiche di personalità, ma il più possibile “oggettiva”, utilizzabile cioè per gli scopi decisionali per cui il lavoro di consulenza è stato disposto inizialmente.
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Il punto che forse più accomuna e avvicina i due ambiti è quello della narrazione. Nell’incontro clinico si dipana il racconto di una vita, di un accadimento, di un disagio, di un sintomo, di una aspirazione. Nel processo diagnostico si entra nella narrazione di una storia, nel processo terapeutico si crea una nuova narrazione. In entrambi i casi si esce con una narrazione di sé diversa da quella fatta fino a quel momento, poiché su una narrazione può fondarsi un assetto identitario ma anche una trasformazione personale.
Ma anche nel contesto giudiziario è sempre presente la narrazione. Il giudice, al pari del consulente, ascolta una narrazione di fatti durante il procedimento di causa, le carte contengono storie narrate, gli avvocati riportano narrazioni di eventi, parti di storie vissute, le persone narrano la loro storia, narrando i loro sentimenti, i loro pensieri, le loro richieste. I “fatti” assumono così valenze psicologiche, poiché accedono ad un registro simbolico, nell’attribuzione di senso, andando a confluire in una nuova narrazione complessiva, che integra e interpreta le diverse voci narranti.
I criteri di coerenza e di logicità delle singole storie non bastano, è solo attraverso l’interpretazione di un’unica narrazione complessiva che i fatti e gli eventi vengono inseriti in un contesto di significati, divenendo fruibili da più protagonisti, i soggetti, il giudice, gli avvocati, il consulente.